Poco salario perché il datore di lavoro paga poco, il concetto, la misura stessa del “poco” stanno nella scala squilibrata di salari e profitto: c’è poco salario se c’è troppo profitto in relazione e rapporto al salario stesso. Quindi più salario, almeno un minimo, un salario minimo va posto in relazione quantitativa e concettuale ad un profitto grande, tanto grande da soffocare il salario. Insomma il salario minimo, se di salario minimo garantito per legge c’è necessità, va pagato dal datore di lavoro che, lui e non altri, fino a quel momento ha compresso il salario sotto una condizione minima di compatibilità con le dimensioni del profitto d’azienda o di impresa.
Questa l’idea e la sostanza che sottendono l’esistenza di un salario minimo fissato per legge in molti paesi europei. Idea di giustizia sociale ed economica stabilità, di etica decenza e di equilibri insieme sociali e produttivi. Idea che così si riassume: il datore di lavoro meno di tanto il lavoro non può pagarlo. Quel tanto, quel minimo lo fissa la legge. I contratti di lavoro si tengano al di sopra di quel minimo ad esso si attengano. Si può discutere ed è opinabile se fissare per legge sia solo “slogan facile” per orecchie di popolo (copyright Meloni) oppure sia azine doverosa verso milioni di salariati “a grigio”, cioè con contratti e rapporti di lavoro facilmente coniugabili cn miseria e sfruttamento. Quel che è certo è che il salario minimo, quale che esso sia fissato eventualmente per legge, e la differenza quindi (se legge fosse) tra la retribuzione attuale e il salario minimo li dovrebbe pagare il datore di lavoro.
La rivoluzione con l’assistenza dei carabinieri
Chi altro se no? Chi altro dovrebbe, se non il datore di lavoro, tirare fuori dalle proprie tasche (profitto) il “troppo” che determina il “poco” del salario? Una sinistra e una destra politiche non all’ultimo stadio affette da populismo non avrebbero dubbi al riguardo e si affronterebbero sulla opportunità/capacità dei datori di lavoro di sostenere il pagamento di un salario minimo fissato per legge. Ma csì non è: la costituzione materiale delle politica di gente e di popolo prevede e prescrive l’ignoranza dei fenomeni in atto, la delega ai posteri del pagare i costi, i costi di qualunque cosa, l’inconsapevolezza di se stessa fiera, l’irresponsabilità orgogliosa, la teatralità grottesca. E quindi, anche nel caso del salario minimo, la spinta e l’aspirazione sono quelle di fare la rivoluzione con il permesso e l’assistenza dei carabinieri.
Salario minimo diventa reddito cittadinanza
Seminascosta nella proposta di legge M5S per l’introduzione del salario minimo (affiancata da analoga del Pd) c’è una clausoletta che in lingua tradotta dal buro-leguleio dice: se il datore di lavoro dice di non farcela a pagare il salario minimo, se il datore di lavoro fatica o recalcitra a passare mettiamo dai sette euro l’ora che paga ai nove mettiamo fissati per legge, di due euro di differenza (o quel che sia la differenza) ce li mette in via provvisoria lo Stato. Lo Stato chi? I soldi quali? I soldi di chi? I soldi dei contribuenti, di chi paga le tasse, ancora e sempre più o meno un italiano su tre (gli altri si imboscano, si negano sono esenti di diritto, diritto molto spesso fasullo e mendace). Ed ecco quindi che il salario minimo da misura di equità e redistribuzione tra salario e profitto diventa welfare improprio, spesa pubblica a debito, clone deforme e mascherato del reddito di cittadinanza. Meravigliosamente impudico è poi quel “provvisoriamente” dove la provvisorietà dall’accollare al fisco la spesa vanta centinaia di precedenti, tutti della durata misurabile in decenni. La Schlein-Conte-Landini economy è comunque quel mondo dove il salario è una variabile indipendente ma anche il profitto se ne sta tranquillo nella sua indipendenza da produttività e concorrenza. Entrambe le confort zone sono a carico della minoranza che paga per intero le tasse e soprattutto vanno sul conto del debito pubblico. Tanto questo non si paga mai e non conosce un minimo e neanche un massimo. O no?