USA: IL FALLIMENTO DEL ”GIGACAPITALISMO”

Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Massimo Gaggi sulla crisi finanziaria in atto intitolato ”Niente illusioni”. Lo riportiamo di seguito:

”Negli Usa è fallito il «gigacapitalismo », non il mercato. Il mercato, del resto, è nel nostro Dna, è parte fondante della cultura dell’Occidente. E in America continua a funzionare assai bene, ad esempio, nell’industria: l’export è in forte crescita e gli squilibri commerciali si sono ridotti, anche se i mesi del petrolio alle stelle hanno nascosto il fenomeno. Il settore manifatturiero, che sembrava agonizzante, ha ripreso quota grazie alla debolezza del dollaro, ma anche perché si è ristrutturato: l’America sta diventando un posto nel quale andare a produrre low cost. Meglio, però, non illudersi che alla fine tutto, nel capitalismo a stelle e strisce, tornerà come prima: la crisi finanziaria non è finita (si estenderà ad altre aree, dalle carte di credito ai prestiti- auto, fino agli hedge fund) e l’impatto di un anno di prestiti «congelati» deve ancora farsi sentire sull’economia reale. La recessione vera comincia ora. Il capitalismo americano risorgerà, ma i suoi connotati cambieranno. Nulla di nuovo: cambiarono anche dopo la crisi degli anni ’30 e il New Deal.

L’iperliberismo, del resto, l’ha sepolto perfino Chris Cox, il capo della Sec, l’autorità di Borsa, che è un reaganiano doc: ha candidamente ammesso il fallimento del suo tentativo di fissare linee guida generali affidandosi, per il resto, all’autoregolamentazione di banche e finanziarie. Quanto a Paulson, lasciando morire Lehman, il ministro del Tesoro ha (involontariamente) dimostrato che il gigacapitalismo non riesce a tenere in vita la regola-base del mercato: chi sbaglia paga ed esce di scena. Il sistema creditizio è in difficoltà da tempo, ma il crac è arrivato proprio con la liquidazione di Lehman. Una banca importante, non un gigante: eppure l’onda sismica ha fatto danni in tutto il mondo e negli Usa ha innescato una vera reazione a catena. Come l’Europa dei campioni nazionali, l’America proverà a ripartire da tre grandi banche per rimettere in piedi un capitalismo gestibile. Il rischio di una deriva dirigista è evidente, ma non ci si può illudere che lo sgombero delle macerie di anni di eccessi avvenga a costo zero.

Questo crollo non avrà conseguenze drammatiche come nel 1929, ma, almeno per un elemento, la crisi attuale è perfino peggiore: la moltiplicazione incontrollabile dei rischi e delle esposizioni innescata dai nuovi contratti derivati, amplificata dalle tecnologie informatiche e ulteriormente agevolata dalla deregulation. Meccanismi che hanno messo non solo gli investitori, ma addirittura i capi- azienda nell’impossibilità di capire cosa c’è davvero dentro una società. Che la finanza avesse smesso di avere i piedi ben piantati per terra, lo sapevano tutti: tanto che la credibilità del sistema era stata affidata ai «titani», i semidei dell’olimpo di Wall Street. Scomparsi i master of the universe, ai mercati rimangono una Fed trasformata in Fort Alamo e Paulson che l’altro giorno al Congresso, a chi a porte chiuse gli chiedeva cosa accadrebbe in caso di bocciatura definitiva del piano di salvataggio, ha messo da parte la mitologia greca e ha invocato l’aiuto del buon Dio”.

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