Dovunque la butti, sempre sbagli: è la liberalizzazione della pila scarica. C’erano una volta i cassonetti per le pile scariche. Erano gialli, simili agli altri contenitori per la raccolta differenziata e si trovavano sparsi un po’ ovunque: davanti ai tabaccai, ai negozi di elettronica e perfino all’ingresso di qualche scuola. Da un giorno all’altro, però, i cassonetti sono quasi completamente spariti. E non perché le pile siano improvvisamente diventate meno tossiche, anzi. Semplicemente sono cambiate le regole e l’Italia, dopo aver varato una liberalizzazione del settore quantomeno incerta, si è adattata alle norme europee con una certa fatica.
Buttare le pile nella spazzatura indifferenziata è e rimane un comportamento scorretto: di batterie, solo nella Ue, ne vengono messe in circolazione più o meno un milione di tonnellate l’anno. Sono inquinanti e pericolose: contengono sostanze tossiche come nichel, cadmio e piombo. Si possono riciclare ma neppure troppo: le pile industriali al piombo sono interamente riutilizzabili, quelle portatili, invece, anche per le piccole dimensioni, al 50% vanno eliminate. Non si possono bruciare perché sprigionano sostanze altamente inquinanti, non si possono interrare nelle discariche perché possono liberare veleni in grado di contaminare l’ambiente circostante. Vanno gettate altrove, ma dove, almeno per il momento, non è dato saperlo.
Fino a qualche anno fa la situazione era relativamente semplice: esisteva un unico consorzio senza fini di lucro, il Cobat, che si occupava della raccolta e del riciclo delle pile esaurite. Poi è intervenuta la liberalizzazione del settore: le società a “trafficare” con le batterie scariche sono diventate 14, ognuna con le sue strutture. Senza che la nuova normativa si sia premurata di istituire un ente superiore in grado di coordinare la situazione. C’è, in verità, un Registro Nazionale Pile ma, come dice il suo nome, è solo un elenco di società che operano nel settore.
Risultato: per il cittadino gettare una pila di un cellulare o di un orologio è diventata un’impresa titanica. Non si sa dove andare. Così, chi ha una punta di senso civico in più si limita ad ammonticchiare rifiuti in casa in attesa di tempi migliori.
In Europa la situazione è chiara, esiste una normativa comune dal 2006 recepita in Italia nel 2008 e prorogata, per quanto riguarda l’entrata effettiva in vigore, fino al 2010. A complicare il quadro ci si mette anche la distinzione tra accumulatori a piombo, ovvero le batterie delle automobili e le pile portatili. Le prime sono un business “vero”: sono interamente riciclabili e si piazzano sul mercato attorno ai 1600 euro la tonnellata. Le seconde, invece, fruttano e interessano molto meno al punto che in Italia non esiste neppure un impianto adatto al loro trattamento e per lavorarle bisogna mandarle in Francia o in Svizzera.
Chi della liberalizzazione ha fatto una bandiera, come Confindusria Anie, rimane convinto che la strada intrapresa sia quella giusta. Per le prime cifre, spiega la direttrice Maria Antonietta Portaluri, occorrerà aspettare almeno un anno, forse anche due. La Cobat, invece, le cifre le pubblica con regolarità: in 20 anni di lavoro sono state raccolte e lavorate circa 230 milioni di batterie, tirandone fuori un milione e mezzo di tonnellate di piombo.
La nuova norma, tra le altre cose, prevede la nascita di un Centro di Coordinamento che farà capo al ministero dell’Ambiente. Non basta: la Portaluri spiega che il “Centro di Coordinamento sarà coordinato dall’Anie”. Intanto le pile finiscono in discarica o si ammucchiano nelle case di chi non sa che farne. “Prima c’era almeno un obbligo morale per le municipalizzate di raccogliere questi rifiuti, ora sono stati responsabilizzati i produttori e le municipalizzate se ne possono lavare le mani – spiega il presidente dell’Associazione Commercianti radio tv e elettrodomestici Francesco Panerai – La situazione è peggiorata”. Gli italiani se ne sono accorti.