Miracolo industriale a Bologna: plastica senza petrolio che si scioglie nell’acqua in 40 giorni

BOLOGNA – Tra i 3 e 12 mesi per un quotidiano, 5 anni per una gomma da masticare, tra i 10 e 100 anni per una lattina. E’ il tempo che occorre a madre natura per “digerire” questi elementi e farli sparire. Carta, chewing gum e metallo sono però cibi leggeri, la sostanza più indigesta è la plastica: servono 100 anni per degradare un accendino, tra i 100 e 1000 anni per piatti, bottiglie e posate di plastica, 1000 anni per il polistirolo e altrettanti per le buste. Oggetti che grazie alla loro “indigeribilità” saranno studiati dagli archeologi del futuro e che contribuiscono in maniera determinante all’inquinamento del nostro pianeta. Ma la plastica fa parte della nostra vita e non possiamo farne a meno, non c’è soluzione quindi. O forse sì, almeno a quanto dicono due imprenditori emiliani, Marco Astorri e Guy Cicognani, padri e inventori di una bioplastica in grado di degradarsi in soli 40 giorni e che si produce senza nemmeno una goccia di petrolio, ma con gli scarti degli zuccherifici.

Le più grandi multinazionali del settore ci hanno provato per anni, investendo anche enormi somme di denaro, ma sono due piccoli imprenditori, che sino a pochi anni fa costruivano antenne integrate negli skipass, ad aver creato la bioplastica in grado di soppiantare la plastica tradizionale. Non si tratta della prima plastica biodegradabile in assoluto, né della prima prodotta senza partire dal petrolio. Ma quella brevettata da Astorri e Cicognani è la prima bioplastica prodotta partendo da scarti industriali e che impiega appena 40 giorni per essere assorbita, senza inquinare, dalla natura.

L’idea della bioplastica venne in mente a Marco Astorri nel 2006, quando vide un pezzetto di plastica abbandonato su un prato di montagna. Quel pezzetto era uno skipass, lasciato cadere da uno sciatore, confuso tra la neve fino a quando la bella stagione non l’aveva sciolta. “Non era un bello spettacolo vedere tutti quei rettangolini di plastica colorata sul verde dei prati e sapere che sarebbero rimasti lì per migliaia di anni se nessuno li avesse raccolti”, spiega Astorri. Così, lui e il suo amico e collega di lavoro, Guy Cicognani, decisero di creare una plastica in grado di sciogliersi nell’acqua nel giro di 40 giorni, meno di due mesi. E così, un grafico pubblicitario, Astorri, e uno che la chimica l’ha studiata all’università, ma senza mai laurearsi, Cicognani, sembrano esser riusciti la dove i migliori scienziati hanno fallito.

In realtà i due intraprendenti imprenditori non si sono inventati nulla di nuovo: la molecola alla base del loro lavoro era stata descritta già nel 1925 da un biologo francese e già Henry Ford aveva pensato di produrre plastica partendo dal mais. Ma fino ad oggi tutti coloro i quali avevano lavorato alla creazione di una plastica economica ed ecosostenibile non erano riusciti ad ottenere i risultati dei due emiliani. Primo perché ultimamente si è in generale puntato su batteri geneticamente modificati, perfetti in teoria ma inefficaci alla prova pratica, sia perché troppo delicati sia perché troppo sensibili al contatto col mondo “vero”. E, cosa più importante, perché praticamente tutte le bioplastiche oggi realizzate usano come materia prima i prodotti agricoli, come il mais, soggetti a ampie variazioni di prezzo che non ne garantiscono l’economicità. Il lavoro di Astorri e Cicognani, raccontato sull’ultimo numero della edizione italiana di Wired, utilizza invece un batterio non geneticamente modificato e, al posto del mais, gli scarti dell’industria dello zucchero. Scarti che per essere smaltiti sarebbero un costo e che invece con questa nuova tecnica vengono trasformati in plastica pulita.

“Il segreto non è nel batterio o in cosa produce, ma piuttosto nel come farlo crescere più rapidamente e produrre il Pha più puro possibile”, spiega Cicognani. Chi conosce ed è in grado di far fruttare al meglio questo segreto è Simone Begotti, capo dello sviluppo alla Bio-on. La ricetta giusta per la produzione di Pha, spiega Begotti, sta nel creare il mix migliore di zuccheri e di ossigeno che faccia ingrassare rapidamente i batteri senza intossicarli. L’industria chimica conosce bene il polidrossialcanoato (il prodotto in questione si chiama scientificamente così) perché in molti hanno pensato di sfruttarne industrialmente le lunghe catene che possono diventare superfici durissime o tessuti morbidissimi. Il problema però è che sino ad ora i costi erano troppo alti e quindi non competitivi rispetto alle plastiche classiche. Astorri e Cicognani hanno risolto il problema. La nuova bioplastica si chiamerà Minerv ed è un Pha, ovvero un polimero.

I vantaggi della nuova plastica non finiscono qui. A differenza delle bioplastiche “normali” il Minerv è molto più resistente al calore e fonde solo sopra i 170°. Il suo essere poi perfettamente e totalmente biocompatibile lo rende ideale per dispositivi biomedici. Tutto perfetto quindi. Stupisce solo che dell’invenzione del secolo non si parli ovunque. Addio “isola di plastica” del pacifico con il Minerv, addio filtri di sigarette e pezzi di plastica in giro per le spiagge e i parchi e, forse, benvenuti protesi e organi artificiali a prova di rigetto.

La nuova bioplastica dovrebbe entrare in produzione già nel 2012. Per allora la Bio-on (così si chiama l’azienda), con sede a Minerbio vicino a Bologna, dovrebbe essere dotata di uno stabilimento in grado di produrne 10mila tonnellate l’anno. Sinora Astorri e Cicognani hanno investito 450mila euro per le licenze e, quest’anno, si sono impegnati a versarne altri 2,3 milioni per depositarne di nuove con validità ovunque. Perché la Minerv ha tutte le caratteristiche di un’invenzione in grado di rivoluzionare l’industria su scala globale.

Le analisi di mercato sono tutte dalla parte di Cicognani e Astorri: nel 2020 la domanda di Pha punterà alle 890mila tonnellate con una crescita annuale del 25% da oggi al 2015. Un video dimostrativo mostra il processo di scioglimento della bioplastica in una bacinella di acqua del rubinetto nel giro di 56 giorni. Quegli skipass che tanto avevano “disturbato” Astorri avrebbero impiegato 4mila anni a sparire. Un bel risparmio di tempo e denaro se si considera poi che gli skipass, come tutte le plastiche tradizionali, sono fatti di petrolio e quindi costano, mentre la Minerv è fatta di scarti industriali.

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