Serbia, condannata la torturatrice Monika Ilic, il “mostro dal viso di bambina”

Pubblicato il 19 Maggio 2013 - 04:40 OLTRE 6 MESI FA

Serbia, condannata la torturatrice Monika Ilic, il "mostro dal viso di bambina"SARAJEVO – Per le vittime era il ”mostro dal viso di bambina”. Monika Karan Ilic, serbo-bosniaca, è stata condannata in primo grado da un tribunale locale a quattro anni di carcere per crimini di guerra commessi quando appena sedicenne infliggeva torture indicibili a civili non serbi detenuti nel campo di Luka a Brcko, nel nord della Bosnia, nei primi mesi della sanguinosa guerra di dissoluzione dell’ex Jugoslavia (1992-95).

Monika, che oggi ha 37 anni, è la quarta donna condannata per crimini di guerra commessi in Bosnia. E due precedenti sono simili al suo, nel groviglio di odi etnici incrociati: con la differenza che in quelle circostanze a essere condannate erano state una croata e una bosniaca-musulmana e che nel primo caso serbe furono le vittime. Per i reati di cui è stata riconosciuta colpevole, il Codice penale prevede pene di un minimo di 10 anni. Ma il giudice Muhamed Avdic ha detto nella motivazione di ritenere che, trascorso così tanto tempo, con 4 anni di reclusione ”sarà raggiunto lo scopo della punizione”.

Minorenne all’epoca dei fatti, Monika era la convivente di Goran Jelisic, detto da alcuni “l’Adolf serbo” e condannato dal Tribunale internazionale dell’Aja (Tpi) nel 2001 a 40 anni di carcere per crimini perpetrati nel campo di Luka, con la morte di oltre cento civili. Mentre sua madre, Vera Simonovic, gestiva negli stessi anni a Brcko il famigerato bar-bordello Westfalia, dove furono stuprate ragazze e donne non serbe.

Giovane era anche la croata Albina Terzic, allora soldatessa ventenne dell’Hvo, la forza paramilitare dei croati bosniaci, condannata lo scorso ottobre, in primo grado, dal Tribunale di Sarajevo per crimini di guerra a 5 anni di reclusione per aver torturato atrocemente civili serbi detenuti in una scuola e in una fabbrica di Odzak, nel nord della Bosnia, all’inizio di quella medesima guerra. E cinque anni sono stati inflitti dai giudici di Sarajevo pure a un’altra ex soldatessa meno che ventenne all’epoca dei fatti, stavolta musulmana, Rasema Handanovic, rea confessa di aver partecipato con la sua unità all’uccisione a sangue freddo di 18 civili, oltre che di quattro militari croati, nel 1993 nel villaggio di Trusina (Erzegovina).

Diverso, invece, il peso politico della prima e unica donna a essere condannata non dalle corti locali, ma dal Tribunale penale internazionale (Tpi) sulla ex Jugoslavia per crimini contro l’umanità. Si tratta di Biljana Plavsic, oggi 82enne, ex vice presidente della Republika Srpska (Rs, entità a maggioranza serba di Bosnia) al fianco di Radovan Karadzic, a sua volta sotto processo all’Aja per genocidio e crimini di guerra. Plavsic in aula ammise le proprie responsabilità e patteggiò una pena a 11 anni, scontati i due terzi della quale fu rilasciata, nel 2009, tra le proteste delle vittime. Ultranazionalista, fautrice al principio della guerra della pulizia etnica (che da biologa definiva ”un fenomeno naturale”) e dell’assedio di Sarajevo (rivendicato come ”difesa delle case serbe”), Plavsic giustificò a suo tempo persino l’ipotetico sacrificio sul campo di battaglia di ”metà dei 12 milioni di serbi”. Affinché ”i sei milioni superstiti” – disse – potessero ”godere i frutti della vittoria”.