Dai Maurizio, torna. Aiutaci tu.

“Cosa ho io in comune con gli schiavi?”. Si arriva all’ultima pagina del nuovo libro di Maurizio Viroli e si è quasi assaliti dal motto greco che Piero Gobetti, mutuandolo da Vittorio Alfieri, apponeva sulla copertina delle sue edizioni. D’altra parte, come escludere a priori di essersi trasformati in schiavi? Magari sarà accaduto subdolamente, scivolando in una condizione che Viroli definisce di “servitù volontaria” perché sottoposta ad un “potere arbitrario o enorme” che con “la sua stessa esistenza rende i cittadini servi”. Se non fosse abbastanza chiaro, il potere “arbitrario o enorme” è quello di Silvio Berlusconi e i nuovi schiavi sono gli italiani che sessant’anni dopo il fascismo “non si sono elevati da liberti a cittadini ma regrediti da liberti a servi volontari”.

È un piccolo libro orgogliosamente malmostoso (“La libertà dei servi”, Laterza, pp.140, euro 15) quello nel quale Viroli schiaffeggia berlusconiani e non. Un pamphlet che potrebbe essere letto come un esercizio aggiornato di quella “retorica del pregiudizio” che qualche giorno fa Miguel Gotor ha ricostruito sul Sole 24 Ore nella sua parabola antica e capace di dipingere l’italiano come “il prototipo del traditore, dell’inaffidabile, del corrotto, del furbastro, dell’imbelle, dell’opportunista, dell’effeminato”. In effetti Viroli a questa retorica non si sottrae, descrivendo gli italiani come vittime di una “secolare debolezza morale, ulteriormente aggravata dal fascismo, che non poteva essere guarita con la nascita della Repubblica”. E comunque abitanti di un territorio sfortunato dove “la libertà dei cittadini è del tutto impossibile per la semplice ragione che le persone che hanno i necessari requisiti morali e intellettuali sono pochi”. Al che un lettore malizioso potrebbe cavarsela con un accorato invito allo studioso che insegna teoria politica a Princeton: “Dai Maurizio, torna tra noi e aumenta anche solo di un’unità la pattuglia degli italiani degni della vera libertà dei cittadini!”

Ma la questione è più seria. E riguarda ancora una volta il giudizio storico sul berlusconismo e sull’eventualità che gli italiani si siano assueffati a fenomeni di degenerazione morale. L’ipotesi su cui si regge l’impianto di Viroli è che il dominio berlusconiano sia per l’appunto “arbitrario e enorme … in quanto eccede di gran lunga i limiti del potere che un uomo ha mai avuto in un regime liberale o democratico”. E qui ci si imbatte in un primo inciampo. Perché l’impressione che si ricava in prospettiva storica, guardando ai quindicennio del potere berlusconiano, è che il Cavaliere sia riuscito a far ben poco di quello che aveva in mente. Sia che nella testa del Cavaliere versione 1994 vi fosse un programma orgogliosamente liberale e liberista sia che si trattasse invece di un piano teso a conculcare le nostre libertà civili, il berlusconismo si avvia ad essere ricordato soprattutto come una lunga parentesi di declino nazionale sulla quale molto più dell’onnipotenza ha pesato l’impotenza della politica. Di tutta la politica, ma soprattutto di quella berlusconiana perché è soprattutto da quel lato del Parlamento che si è addensata una quantità di consenso democratico che avrebbe permesso di dare all’Italia una dose di innovazione molto maggiore di quella che abbiamo conosciuto.

Tra le ragioni che possono spiegarci l’impotenza del berlusconismo ve n’è una che Viroli fotografa con precisione, salvo metterla in conto al soggetto sbagliato. È “il sistema della corte”, in virtù del quale si “dipende dall’effettivo potere del signore di distribuire ai cortigiani benefici materiali e simbolici e di minacciarli, altrettanto efficacemente, di privarli di tali beni”. Cedendo all’arcinota retorica del pregiudizio, aggiornata all’era televisiva che avrebbe “generato orde di analfabeti incapaci di capire una pagina scritta” (e dai Maurizio, torna almeno tu che sai leggere e non guardi la tv!), Viroli dipinge la gran parte degli italiani come cortigiani instupiditi. Avrebbe invece potuto fermarsi, con più efficacia interpretativa, ai partiti politici dell’era berlusconiana. Che tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra, e certamente in Parlamento dove si viene nominati in virtù di una legge elettorale vergognosa, si sono ormai trasformati in entità cortigiane e familistiche con poca o nessuna vitalità democratica. È questo il vero morbo che meriterebbe il disprezzo di Viroli, piuttosto che la tempra morale di una nazione che non può essere confusa con chi si trova provvisoriamente a governarla.



Leggi l’articolo originale su: andrearomano

Gestione cookie