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Giampaolo Pansa ai giovani: “Mollate gli studi, andate a lavorare. Rischiate di ritornare poveri”

di admin |10 Marzo 2011 13:45

Piemonte d'altri tempi

Giampaolo Pansa racconta su Libero com’era la vita in Piemonte 150 anni fa. Una vita povera, fatta di denutrizione, lavoro minorile, analfabetismo e morti precoci. Non è il Biafra, neanche la Calabria: è il Piemonte, solo un secolo e mezzo fa:

Mio nonno Giovanni Eusebio Pansa era nato nel 1863 a Pezzana, nel Vercellese, un paese di duemila abitanti, sul confine orientale della pianura che guarda il fiume Sesia e la Lomellina. L’unità d’Italia, quella che si celebra oggi, risaliva a due anni prima, ma lui non ne era stato informato. Sapeva soltanto di essere un povero strapelato, uno dei tantissimi del suo paese natale. Un luogo sempre affogato nella nebbia. Un posto di risaie, cascinali isolati, pochi padroni e tanti contadini senza terra. Di abbondante c’era soltanto la malaria. Ci dava dentro ogni mese dell’anno perché non veniva curata a dovere. Il chinino non era ancora gratuito e costava caro come il fuoco. Chi si ammalava, di solito andava al creatore. Per deperimento organico, ossia per la fame. Per le tumefazioni della milza. Per le cirrosi epatiche malariche. […]

Perché Pansa racconta tutto questo proprio oggi? E’ la sua risposta ai giovani che gli chiedono un aiuto per entrare nel mondo del giornalismo. Con quali credenziali? Con quali studi? Quali prospettive? Tutto molto scarso, secondo Pansa:

Scopro che esistono sedi universitarie che non ho mai sentito nominare. Con strani corsi di laurea. Tutti creati allo scopo di offrire uno stipendio a docenti spesso improvvisati. Quelli di giornalismo sono colleghi ancora in attività o in pensione, saranno anche bravi, però non ricordo un articolo scritto da loro. A quel punto chiedo al ragazzo o alla ragazza: lo sai che in Italia i giornalisti sono troppi e molti editori stanno sfoltendo le redazioni, anche in testate importanti? No, non lo sanno. Allora domando: perché vuoi fare il giornalista? Risposta: perché mi piace scrivere, e al liceo avevo ottimi voti in italiano. Altra domanda: la tua famiglia è ricca? Risposta: per niente, anche se riesce a pagarmi l’università. Nuova domanda: perché non scegli un’altra professione, ad esempio l’infermiere, il paramedico, la badante?

Il consiglio è di cercare mestieri più sicuri: l’infermiere, il paramedico, la badante:

Alla parola badante, sento che un brivido di orrore scuote la ragazza o il ragazzo: perché proprio la badante? Risposta: perché la società italiana invecchia e ci sarà sempre più bisogno che gli anziani vengano assistiti in casa. Saranno necessari infermieri, che oggi ci arrivano da centoquaranta paesi stranieri, e con loro fisioterapeuti, massaggiatori, addetti alla riabilitazione, governanti di case…  Avverto un altro brivido di orrore. A quel punto concludo la conversazione con una profezia: se non capisci come gira il mondo, preparati a diventare di nuovo povero. Come forse lo erano i tuoi nonni o i tuoi bisnonni. Sai qualcosa della loro vita? No, non sanno nulla. Io invece lo so. Perché non sono più di primo pelo. E di tre poveri conosco tutto. Erano i miei nonni paterni e mio padre.

Questo è il “curriculum vitae” del nonno e del padre di Pansa:

I ragazzi cominciavano a lavorare molto presto, fra i 10 e gli 11 anni. I maschi venivano portati alla fiera di Vercelli, che si svolgeva il 2 febbraio alla ricorrenza della Madonna Siriola e il 1° agosto. Qui arrivavano i proprietari delle terre che affittavano i bambini per sei mesi. I primi a essere scelti erano “i fioroni”, gli alti di statura, poi i più piccoli. Diventavano i loro servi, quasi sempre addetti a fare “al vachè”, il ragazzo di stalla, comandato a guardare le mucche dall’alba al tramonto. Questo fece mio nonno, sino ai 19 anni. Poi nel 1882 venne arruolato nel nuovo esercito dell’Italia unita. Stava nella fanteria, dove la ferma triennale era stata ridotta di un anno. Giovanni era analfabeta, ma in caserma i maestri militari gli insegnarono a leggere e a scrivere. Alla conclusione della ferma, il soldato doveva affrontare l’esame di scrittura e lettura. Se non ce la faceva, era obbligato a sciropparsi altri sei mesi di servizio militare. Se non superava neppure il secondo esame, altri sei mesi da soldato. Poi il Re lo mandava a casa comunque, con un calcio nel sedere. […]

Giovanni e Caterina misero al mondo sei figli. Ma non conosco se altri siano morti subito dopo la nascita. Mio padre Ernesto fu il quinto, nato il 6 ottobre 1898. Quell’anno, in Piemonte, i bambini che non superavano i primi dodici mesi di vita erano ancora diciassette su cento. Le madri erano denutrite. Il loro latte era povero. Ai neonati offrivano una poltiglia di pane grattato e farina. Oppure bocconi di polenta e di minestra già masticati dalla mamma. Anche mio padre venne nutrito così. E fu tanto fortunato da sopravvivere alle malattie intestinali, al rachitismo, al morbillo, alla scarlattina e alla difterite, tutte mortali tra i poveri. Giovanni Eusebio, contadino senza terra, morì all’improvviso, mentre zappava il campo di un padrone. Era il 2 maggio 1902 e aveva appena 38 anni e mezzo. Una fine molto precoce, visto che allora l’età media dei maschi era di sessant’anni. E di solito smettevano di lavorare a 55, perché erano sfiniti dalla fatica.

Mia nonna Caterina, rimasta vedova a 33 anni, rifiutò di affidare i figli alla carità pubblica. E li allevò da sola, nella miseria più nera. Un giorno mi disse: «Ho fatto tanti mestieri, compresa la ladra. Tranne uno: la slandrona». Voleva dire la puttana. Alla morte del padre, Ernesto, mio papà, aveva tre anni e mezzo. L’ultimo dei suoi fratelli, mio zio Francesco, un anno. Quanto fosse immensa la loro miseria, lo compresi molto tempo dopo. Il giorno che chiesi a Ernesto come si fosse trovato durante la prima guerra mondiale, da soldato del genio. Arruolato nel febbraio 1917, a 18 anni e quattro mesi. E mandato subito al fronte nella Terza Armata.

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