Psichiatri americani, meno parole più farmaci

New York – Il mestiere dello psichiatra sta cambiando, almeno in America. Il New York Times descrive come avvenga l’evoluzione con un articolo il cui titolo dice già tutto: “Le chiacchiere non pagano abbastanza. Così gli strizzacervelli americani abbandonano il lettino per gli psicofarmaci”.

Per raccontarlo, il giornalista una una tecnica quasi cinematografica, partendo da un caso concreto. Eccolo.

Seduto sulla sedia il paziente muove nervosamente le mani. Ogni tanto guarda supplichevole il suo psichiatra mentre una lacrima gli scende sulla guancia. Suo figlio è appena nato ma ha già dei seri problemi di salute. Sua moglie, sconvolta, è sempre più nervosa e non fa altro che urlare. Lui ha ricominciato a bere. Il suo (secondo) matrimonio sta andando alla deriva e, ammette, ha bisogno di aiuto. “Mi scusi, aspetti un attimo. Io non sono il suo terapista. Volevo ricordarle che io posso solo darle un aiuto farmacologico. Non deve raccontarmi la sua vita privata”. Già perché il dottor Donald Levin, come molti dei 48mila psichiatri americani, ha abbandonato la talk therapy, il classico colloquio con il paziente, per dedicarsi alla più facile (e redditizia) prescrizione di psicofarmaci. Perché le chiacchiere non pagano abbastanza.

La medicina negli Stati Uniti si sta rapidamente trasformando da un lavoro di umanità artigianale a una professione dominata dalle grandi aziende ospedaliere e dalle corporation. E la psichiatria non fa eccezione. Gli psicoterapeuti ormai hanno in gran parte archiviato le lunghe sedute, rese celebri da Sigmund Freud, in cui i pazienti raccontano i propri problemi stesi su un lettino (o su un divano, come quello del celebre psicoanalista austriaco), perché durano troppo e sono troppo costose. E, soprattutto, perché le assicurazioni non le pagano più. Ora, invece, le conversazioni fiume sono state rimpiazzate da brevi colloqui (quindici minuti al massimo, non uno in più) a cui segue l’individuazione di un piano terapeutico con vari psicofarmaci.

Il dottor Levin, 68 anni, ha studiato al Michael Reese Hospital, nei pressi di Chicago, da terapista tradizionale. Allora, come molti altri psichiatri, la talk therapy era nell’epoca d’oro: Levin seguiva cinquanta-sessanta pazienti, una o due volte a settimana, e la seduta durava tre quarti d’ora. Oggi di pazienti ne ha più di 1200 e le sedute, di soli quindici minuti, servono solo a prescrivere loro altre medicine. Allora conosceva per filo e per segno la vita dei suoi malati, oggi di molti non ricorda neanche il nome. Allora il suo obiettivo era aiutarli a diventare felici e soddisfatti, oggi basta che “tirino avanti”.

Per il dottor Levin la transizione non è stata facile. “Ho dovuto imparare a non interessarmi troppo ai problemi dei miei pazienti” confessa. Il suo studio è arredato con maschere tribali, alla parete è appeso un alce, e al posto del lettino ci sono due sedie di pelle. “Mi manca il mistero e l’intrigo della psicoterapia. Ora mi sento come una macchina”. Il passaggio dalla talk therapy alle medicine ha portato un senso di inadeguatezza in molti vecchi psichiatri. E negli ospedali le cose non vanno meglio. Se prima i pazienti potevano godere di mesi di “terapia delle parole”, oggi in pochi giorni vengono scaricati con solo qualche pillola in tasca.

Questo cambio di paradigma nella psichiatria americana non è dato da un’evoluzione negli studi. Ma, più semplicemente, dalle nuove politiche delle compagnie di assicurazione che scoraggiano la talk therapy. Uno psichiatra, infatti, guadagna 150 dollari per tre “sedute con farmaci” da 15 minuti. Per una normale chiacchierata con il paziente di tre quarti d’ora, invece, guadagna solo 90 dollari. E’ una questione di portafoglio.

“All’inizio tutti noi, dopo aver passato anni ad imparare l’arte della psicoterapia, non volevamo cedere alle politiche delle assicurazioni. Ma poi uno ad uno ci siamo resi conto che non era più economicamente sostenibile – spiega il dottor Levin -. Molti di noi hanno i figli al college. E vedere le entrate ridursi drasticamente è stato uno shock. Ci ho messo cinque anni ad ammettere che non avrei più fatto quello che amavo”. Levin avrebbe potuto accettare meno pazienti e dedicare loro più tempo, nonostante il taglio dei rimborsi delle assicurazioni. Ma, ammette, “voglio andare in pensione con lo stesso tenore di vita che mia moglie ed io abbiamo avuto per 40 anni”. Il salario medio annuo di uno psichiatra, nel 2009, era di 191mila euro.

L’altro motivo che ha portato gi psichiatri ad abbandonare la talk therapy è la concorrenza di psicologi e assistenti sociali che, non frequentando scuole di medicina, hanno tariffe più basse. Lo sa bene Laura, moglie del dottor Levin e assistente sociale di professione. Come suo marito, il motto della signora Levin è uno solo: limitare le interazioni con i pazienti al business. E per questo applica tutta una serie rigidissima di regole che puntano a un solo obiettivo: fare più soldi possibili.

Se un paziente salta un appuntamento, ad esempio, dovrà pagare 50 dollari in più la volta dopo. Solo 25 dollari, invece, se si vuole che una ricetta venga inviata via fax. E 10 dollari per un mancato “co-payment” (un pagamento definito nella polizza di assicurazione e pagato dalla persona assicurata ogni volta che si accede a un servizio medico). Non appena il paziente entra nello studio, infatti, la Levin gli chiede di saldare il pagamento, massimo 50 dollari. Poi apre l’agenda e gli prenota il successivo appuntamento, senza chiedergli preferenze per il giorno o l’ora. Non vuole sprecare tempo prezioso.

“E’ una questione di quantità – spiega – . Se passiamo due o cinque minuti in più con ognuno dei 40 pazienti giornalieri, vorrebbe dire lavorare due altre due ore al giorno. E non possiamo farlo”. “La verità – ammette – è che non sono più una terapista”. Le sue parole fanno eco a quelle del marito.

Inutile dire a soffrire dell’adozione della “terapia delle medicine” al posto della “terapia delle parole” sono, prima di tutto, i pazienti. Tanto che, come ammette lo stesso dottor Levin, spesso accade che alla vera diagnosi si arriva solo dopo molte sedute. Nei quindici minuti, infatti, lo psicanalista chiede rapidi aggiornamenti su sonno, umore, concentrazione, appetito, irritabilità e anche problemi sessuali. Tutti effetti degli psicofarmaci.

“La gente vuole raccontarmi la sua vita, cosa gli accade, sfogarsi – ammette Levin -. E io devo ripetergli ‘Non sono il suo terapista. Non sono qui per aiutarla a superare i problemi con il suo capo, dirle se quello che fa è controproducente o quali alternative ha’”. Capelli radi, barba grigia, occhiali con montatura a giorno. Il dottor Levin sembra appena uscito da una vignetta: è proprio così che ci si immagina uno psicanalista. O almeno il suo aspetto fisico.

La qualità del trattamento è molto peggiorata da quando era giovane, ammette. “Il mio ufficio è come una fermata dell’autobus”. Ma i pazienti non mancano. “Non ho bisogno di una chiacchierata di mezz’ora – spiega un paziente con depressione e frequenti attacchi di panico -. Voglio solo delle medicine e sono a posto”.

Un’altra paziente, con depressione post-partum, è peggiorata notevolmente dopo un aborto, prende appuntamento con il dottor Levin ogni quattro settimane, cioè ogni volta che l’assicurazione paga. Lo psicoterapeuta le ha prescritto antidepressivi e altri farmaci per combattere l’ansia. Il dottor Levin le piace perché la ascolta.

“La cosa triste è che sono molto importante per loro ma io li conosco a malapena – commenta Levin -. Mi vergogno di questo ma probabilmente è perché sono cresciuto in un’altra epoca”.

Il figlio più piccolo dei Levin, Matthew, sta studiando da psichiatra. E il padre Donald spera che, almeno lui, non debba soffrire dell’ambivalenza di questa professione, visto che fin dall’inizio passerà poco tempo con i pazienti. Il resto sono solo chiacchiere.

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