TORINO – Una truffa da quasi 3 milioni di euro. Un falso papiro egizio rifilato nel 2004 alla Compagnia di San Paolo di Torino. Un’indagine complessa che ha visto studiosi di nome l’un contro l’altro armati, arenatasi sul lido della inesorabile prescrizione, davanti alla quale si è dovuto arrendere anche un magistrato del valore e del calibro di Armando Spataro, Procuratore capo della Repubblica, alla vigilia della pensione.
Alla fine Spataro ha dovuto chiudere l’indagine con una richiesta di archiviazione. Il reato di truffa si era ormai prescritto. Ma in 33 pagine di richiesta di archiviazione, Spataro ha anche dato gli elementi per una successiva azione civile, sempre che qualcuno lo voglia. Le parole di Spataro sono più di una requisitoria, sono una sentenza: “La certezza del falso è abbondantemente provata, sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti”. Spataro dispone che gli atti siano inviati alla Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, vittima della truffa, senza trattenersi da un durissimo giudizio: Nel suo atto conclusivo di carriera Spataro denuncia “l’opacità assoluta dell’intera vicenda/trappola in cui la fondazione stessa è intercorsa e che sarebbe stata verosimilmente evitabile attraverso accertamenti, studi e consulenze affidabili prima dell’acquisto” del papiro di Artemidoro, il falso papiro oggetto dell’imbroglio.
In realtà sarebbe stato sufficiente leggere bene le carte. Il ministero dei beni culturali tedesco l’aveva messo nero su bianco prima che il papiro fosse venduto dal proprietario tedesco agli sprovveduti italiani.
La vicenda giudiziaria, un giallo degno di Dan Brown, senza morti ma con un buco di 2 milioni e 750 mila euro ai danni della fondazione bancaria, è stata ricostruita da Ottavia Giustetti su Repubblica. Al centro c’è il Papiro di Artemidoro. Veniva fatto risalire alla fine del I secolo a.C. e per lungo tempo, è stato erroneamente attribuito al geografo antico Artemidoro di Efeso. Che sia un falso, rivela Ottavia Giustetti, non ci sono ormai più dubbi.
Il papiro è alto 32,5 centimetri e lungo circa due metri e mezzo, ed è frammentato in molteplici pezzi. Contiene un testo geografico: nelle prime due o tre colonne vi è un proemio nel quale la geografia viene messa in rapporto e a confronto con la filosofia; poi un’informazione sulla divisione amministrativa della Spagna, ripartita nelle due province Tarraconese e Betica, poi un periplo della Spagna a partire dai Pirenei e dal promontorio di Afrodite Pirenaica fino al promontorio degli Artabri nell’Oceano Atlantico. Gli accertamenti disposti dal Ministero dei beni culturali sugli inchiostri utilizzati per tracciare la pergamena a lungo considerata documento di inestimabile valore storico, hanno decretato che i disegni sono di epoca certamente successiva al I secolo a.C., molto probabilmente un falso dell’Ottocento attribuibile al greco Costantino Simonidis.
Ma a convincere gli acquirenti italiani della bontà del falso fu un geniale mercante d’arte d’origine armena, nato in Egitto e residente in Germania, Serop Simonian. I venditori infatti erano tedeschi. Gli italiani non erano barboni qualunque, ma studiosi, politici e amministratori degli enti culturali. A firmare il mega assegno fu la Fondazione per l’arte della Compagnia di San Paolo, che lo acquistò come autentico nel 2004, al prezzo di 2 milioni e 750 mila euro per esporlo al Museo Egizio.
Il procuratore di Torino, Armando Spataro, pochi giorni prima di andare in pensione e lasciare la magistratura, ha reso ufficiale l’esito della sua indagine, una di quelle a lui più care, avviata al proprio insediamento a Torino, nonostante i fatti sui quali ha cercato delle risposte fossero probabilmente già prescritti all’epoca. Ma il valore della verità storico-culturale sull’autenticità del papiro va oltre la rigorosa ricerca dei reati e chiude un dibattito durato anni tra studiosi di opinioni differenti. I punti chiave dell’inchiesta sono moltissimi, ma uno su tutti fa sobbalzare: tra i documenti allegati all’acquisto del papiro (che si trovava in Germania) – che la Procura ha acquisito nel corso della lunga indagine – c’è una lettera del 2 marzo 2004 con il cui il delegato del governo federale per l’Istruzione e la Comunicazione di Bonn, Rosa Schmitt-Neubauer, conferma che non è necessaria alcuna autorizzazione all’esportazione del documento che in effetti “non appartiene ai beni artistici di valore per la storia tedesca”.
Non era considerato, insomma, patrimonio culturale da tutelare nonostante si trovasse in territorio tedesco. Vi è poi allegata l’istanza per la concessione dell’autorizzazione all’esportazione di oggetti antichi presentata all’Istituto per la Cultura nazionale del Museo d’Egitto, nell’aprile 1971, con cui sarebbe stato esportato dall’Egitto, e nella traduzione si legge che il materiale è descritto come “sacco di carta in parte con immagini in oro” senza altri particolari. Vi si precisa anche che il suo valore è di 20 lire egiziane. Ma, a dire il vero, dichiarazioni di questo tipo sono tipiche di ogni mercante d’arte del terzo mondo quando un occidentale compra un’opera d’arte e deve esportarla senza incorrere nei rigori delle nostre dogane. Lo sviluppo dell’inchiesta, che potrebbe essere oggetto di un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio – dal I secolo a.C., all’Ottocento, a oggi, attraverso Italia, Germania, Grecia ed Egitto -, prende le mosse da un esposto del 2013 dello studioso Luciano Canfora “circa la falsità del papiro di Artemidoro”.
Molte perplessità sono state sollevate in questi anni sul caso, e la consapevolezza della truffa da record in cui le istituzioni piemontesi erano cadute, sembra essere affiorata pian piano, ma alla fine è stata la stessa Compagnia di San Paolo a voler fare chiarezza sul reale valore del documento, e ad aver chiesto di sottoporre il papiro a un test definitivo sulla composizione degli inchiostri e su alcuni frammenti selezionati.
“Si annunciano ulteriori approfondimenti – ha scritto Piero Gastaldo poco prima di lasciare la presidenza della Fondazione – ma diciamo che, pur non essendo di fronte alla “pistola fumante”, le evidenze preliminari sembrano supportare la tesi del falso più di quella dell’autenticità. Per quanto riguarda gli inchiostri, la composizione appare decisamente diversa da quelli usati nei papiri egiziani del periodo dal I al VI secolo e i frammenti sembrano far emergere l’ipotesi che il papiro sia stato posizionato su una rete metallica zincata e sottoposto ad azione di acidi, un trattamento che ha determinato il trasferimento dello zinco alla rete metallica”.
Si chiude così definitivamente l’acceso dibattito che ha animato il mondo accademico negli ultimi dieci anni sul caso. Un dibattito che vendeva fin dall’inizio molte voci scettiche ma che, non si comprende perché, ha visto gli interessati propendere sempre per la tesi dell’autenticità, senza controlli né verifiche. Canfora, filologo di fama mondiale e docente all’Università di Bari, ha esaminato in dettaglio sia il testo greco che i disegni di cui il papiro è ricco, intervenendo in convegni di alto livello e con importanti e ampi studi pubblicati nel corso degli anni e ha dichiarato fin dal 2006 che il papiro era semmai attribuibile a un esperto falsario ottocentesco. Anche a livello internazionale molti studiosi hanno messo in discussione l’autenticità del documento.
L’allora direttrice del Museo Egizio, Eleni Vassilika, che era entrata in forte contrasto con i suoi superiori per essersi opposta all’esposizione nel “suo” museo del documento donato dalla Fondazione, sapeva bene chi fosse il mercante Simonian perché aveva venduto dei clamorosi falsi al museo di Hildesheim, l’istituzione che lei dirigeva prima di arrivare a Torino. Inoltre sapeva che Simonian faceva entrare in Germania i reperti, tramite “duty free” svizzeri, e che quelli più grandi li faceva addirittura segare.
Eppure per molto tempo ha continuato a riscuotere maggior credito il gruppo degli storici che si sono schierati per difendere il valore dell’opera, come Salvatore Settis, che nel 1999 ne aveva già trattato l’acquisto per il Getty Center for the History of Art and the Humanities di Los Angeles, di cui fu direttore dal 1994 al 1999, e il papirologo dell’Università Statale di Milano, Claudio Gallazzi, che per primo insieme a Barbel Kramer dell’Università di Treviri segnò la scientifica attribuzione dei contenuti del papiro ad Artemidoro di Efeso.