ROMA – Per ricreare il “califfato”, avverte Bernardo Valli su Repubblica,
“non basta una striscia di territorio che va dalla provincia irachena di Diyala alla siriana città d’Aleppo. Il gruppo di militanti integralisti armati che ha annunciato la rinascita di quell’istituzione religiosa e politica rappresenta molto poco per il miliardo e mezzo di musulmani sparsi nel mondo”. L’iniziativa non è tuttavia banale. Vuole essere un’aperta sfida all’Occidente, e a quella parte dell’Islam accusata di essere al suo servizio”.
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“Non è “storica” la proclamazione del califfato. Sarebbe azzardato definirla tale. Contraddizioni e improvvisazioni mettono in luce la scarsa credibilità. Sarebbe stato più sensato se i promotori dello Stato islamico avessero annunciato la nascita di un semplice emirato. Il quale implica un’estensione territoriale più modesta, e comporta meno ambizioni religiose. I Taliban, non certo esemplari nella moderazione, pur occupando il novanta per cento dell’Afghanistan, si sono limitati a dichiarare un emirato. Cosi hanno fatto gruppi ispirati da Al Qaeda, nello Yemen e nel Mali. Non si sono montati la testa al punto da lanciare l’idea di un califfato. Avrebbero fatto sorridere. Nel fanatismo non manca del tutto il senso della misura.
Se i guerriglieri con le bandiere nere che spadroneggiano tra la provincia irachena di Diyala e la città siriana di Aleppo, zone a stragrande maggioranza sunnita, non suscitano ironia, ma orrore, è perché hanno fatto precedere la proclamazione del califfato con decapitazioni, crocifissioni e profanazioni di santuari sciiti, sufi e cristiani. E perché li hanno pubblicizzati, mostrando video e fotografie, come se si trattasse di lanciare un prodotto o una moda”.
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“È stato al-Baghdadi, nato Brahim al-Badri nella città irachena di Samarra, a dichiarare il califfato e quindi a promuoversi califfo. Alle origini era il modesto chierico in una moschea sunnita, poi si è diplomato in pedagogia all’Università di Bagdad. La sua esperienza come terrorista è stata lunga, durante l’occupazione americana dell’Iraq. Quando furono tagliate e poi mostrate le teste di alcuni ostaggi occidentali lui era un giovane gregario. In seguito ha fatto carriera e ha fondato un suo movimento, fino a farne lo Stato islamico.
Oggi è abbastanza sfacciato da considerarsi un discendente di Abu Bakr, il primo califfo. E califfo significa successore. Bakr fu appunto il successore di Maometto, alla sua morte, nel Settimo secolo. Come istituzione il califfato è rimasto al centro dell’Islam. Ha condotto alla rottura tra sunniti e sciiti, rivali nella lotta di successione al Profeta, e adesso ancora a confronto sul piano comunitario e religioso, in Iraq e in Siria. A fasi alterne, nei secoli, il califfato ha rappresentato una forza militare o ha esercitato un’autorità religiosa, o un’istituzione simbolica. O le due insieme. La sua ultima dimora è stato l’Impero ottomano, dissoltosi in seguito alla Grande guerra. Nel 1924 la Turchia repubblicana l’ha abolito. La sua rinascita è rimasta un’aspirazione avvolta nel mito. Alcuni movimenti (ad esempio il Partito della Libertà, Hizbal Tahrir, che conta un milione di aderenti nel mondo musulmano, e la stessa Al Qaeda) ne hanno proposto con più o meno insi- stenza la ricostituzione. Al-Baghdadi è andato oltre le intenzioni: l’ha proclamato.
Il suo è il primo avventuroso ma concreto tentativo di realizzarlo sul serio. Molti musulmani hanno aderito al nazionalismo, opposto all’idea di califfato, altri sono repubblicani o democratici. Ma i gruppi radicali hanno guadagnato terreno. Li hanno favoriti i rais (come l’egiziano Mubarak o il tunisino ben Ali) che giustificavano l’autoritarismo e la corruzione con la necessità di opporsi al fanatismo religioso. Il conflitto israelo-palestinese, gli interventi americani nei paesi musulmani, il fallimento economico di molti paesi arabi hanno fatto il resto. Le “primavere” (con l’eccezione tunisina) sono svanite e con loro, almeno per adesso, i progetti democratici. Il califfato di al-Baghdadi sembra un’allucinazione”.