ROMA – Mimmo Candito, storica firma della Stampa, racconta la sua battaglia contro il cancro. “Io, inviato sul fronte della guerra al cancro”: questo il titolo dell’articolo che Blitz quotidiano vi propone oggi, lunedì 1 giugno, come articolo del giorno:
Sto bene. Ma ho un tumore nel polmone. Sì, ho un tumore al polmone destro. Punto. Non credo proprio che sia una notizia d’interesse (tranne che per me, naturalmente), eppure voglio parlarne, e parlarne pubblicamente. Ma, questo, per scuotere i tanti che – appena io dico «mi hanno trovato un tumore» – fanno doverosamente la faccia di circostanza, e abbassano il volume, e il tono, delle loro parole. Come si fa tra persone sensibili quando si parla a un morto, anche se è un morto che cammina.
La diagnosi
Parto da lontano, alcuni anni fa. Erano più o meno questi giorni, e stavo a Miami; seguivo per la «Stampa» la storia dei cubani esiliati e i loro sentimenti verso l’isola che avevano dovuto abbandonare. Insomma, scrivevo al computer: le interviste, gli incontri, le facce, le storie, e però, quando mi piegavo verso il pc e la tastiera, provavo subito un forte dolore, dietro, tra nuca e spalle. Sarà la cervicale, pensavo. Andai in ospedale, da una mia amica medica di laggiù.Mi portò da un suo collega, il quale confermò la mia supposizione. «Facciamo comunque una piccola radiografia, per valutare lo schiacciamento delle vertebre».
Quando, dopo, fissò la lastra sullo schermo, controluce, fece però una brutta faccia. E stette zitto.
Per trent’anni, allora, il mio lavoro di corrispondente di guerra mi aveva portato a camminare con occhi angosciati lungo i passi della morte, dentro guerre combattute nella verità nuda di chi ammazza o è ammazzato, tra teste squarciate e pance aperte, gambe mozzate, banchetti di mosche sulle budella ingrigite dal sole, e merda e macerie dovunque. Non poteva certo impressionarmi una vaga idea della morte sospesa nel lindore della cameretta sterile e ben in ordine d’un ospedale americano. Per questo ero sereno, quando dissi: «Com’è serio, dottore. C’è qualche brutta storia?».
Mi guardò un attimo, poi indicò un punto della lastra, che inquadrava il collo e la parte alta del torace. «Questa macchia biancastra, qui, vede, non dovrebbe esserci. Non lo so davvero, però potrebbe anche essere un tumore».
In America vanno giù diretti; il medico ti spiffera subito tutto, senza reticenze né giri di parole, per evitare poi vertenze legali e i milioni di dollari che magari gli toccherebbe pagare per danni («Eh, se me lo diceva subito…»). Mi guardò molto serio, e scosse la testa. «Potrebbe essere».
La prevenzione
(Prima considerazione) Il tumore, spesso non sai d’averlo. Ci convivi, lui ti lavora dentro, e quando, alla fine, magari per un qualche accidente che non c’entra nulla, i medici lo scoprono, è ormai troppo tardi. La prevenzione, oggi lo sappiamo, diventa un atto fondamentale.L’ospedale era il «Mount Sinai», un ospedale privato. Mi chiesero se avessi la carta di credito. Certo, ce l’ho, e in pochi minuti mi ritrovai su una barella; veloci, mi portarono per il corridoio a fare una Tac. Poi, mi lasciarono nel lettino d’una cameretta, improvvisamente da solo, la luce abbagliante della Florida nel cielo della finestra. Ero arrivato all’ospedale per un banale controllo, le braghe corte, la t-shirt, le espadrillas; e ora dovevo chiedermi se stavo per morire.
(Seconda riflessione) Come ci si comporta? mi chiedevo. Se muori in guerra, non hai domande da fare. Ma se invece ti vengono a dire che devi morire, e ti lasciano lì che nemmeno sai ancora se però sia vero o no, che si fa? E alla moglie, come lo si comunica?
Imbarazzo serio. Ma anche (Terza riflessione): hanno detto che «pare» che sia un tumore, e però, per te e per tutti, «tumore» significa che sei morto, che cammini e pensi e ti agiti e fuori c’è il sole, ma però sei già morto. Perché, nella tua testa, nella testa di tutti, il tumore è la condanna definitiva.Entrò un dottore, il camice bianco, un sorriso appena accennato. Mi diede la mano e si presentò. Poi, senza quasi una pausa, aggiunse guardandomi negli occhi: «Dear Mr. Candìto, devo dirle che il suo è davvero un tumore. Ma questo suo tumore è inasportabile. Lei non ha speranze di vita». Mi diede nuovamente la mano, questa volta senza nemmeno l’ombra di un sorriso. E andò via.
(Quarta riflessione) E’ dunque vero che tumore significa morte, pensai come chiunque, scacciando dalla mia testa la speranza nascosta che, però, alla fine tutto si aggiusta. L’illusione che tocchi sempre a un altro, ma non a te.
Ora, all’improvviso, non era questione di partire per andare in guerra e avere l’abitudine a pensare in astratto che, sì la morte ti può anche agguantare, ma dentro di te sei sicuro che mai arriverà; e invece ora no, la morte era lì, su quel lettino, morte vera e non pensiero astratto. All’improvviso diventavi uno qualunque al quale hanno appena detto che sta per morire, e non c’è muretto dietro il quale proteggersi dai colpi di kalashnikov o dal razzo che sibila nell’aria e sta per pioverti addosso. Morire, e basta.
La mia amica medica convinse il suo collega oncologo a fare «anche l’impossibile». Lui, il dottor Rogerio Lilembaum, uno scienziato di punta, vista l’«impossibilità» del mio caso, non applicò il protocollo, cioè quelle norme terapeutiche già comprovate per ciascun tipo di tumore e che sono comuni ovunque, in America come in Italia o in Ucraina. Tentò un «trial», una sperimentazione. L’esame istologico mostrava che nei vetrini c’erano tracce di metalli pesanti, titanio, uranio, e altro che comunque non sta nella vita quotidiana ma si trova soltanto in guerra; probabilmente, erano tracce d’una contaminazione, l’Afghanistan forse, o forse l’Iraq, o la Somalia, come tanti veterani dei marines o anche tanti soldati italiani in Kossovo. Lavorando con il computer sulla specificità del mio organismo e sulla eziologia del tumore, e adeguando a questo la terapia, mi dettò 45 sedute di radiazioni, e 6 cicli di chemioterapia mirata nel dosaggio delle componenti.
Furono mesi molto duri. (Sesta considerazione) Chi è malato di cancro vuole che si rompa la cortina di commiserazione che lo circonda, non accetta l’esorcismo pavido di chi non vuol mai usare la parola «tumore» e ripiega su «il brutto male»; non chiede pietà, e nemmeno l’insopportabile ipocrisia di chi dice «coraggio» e di nascosto fa gli scongiuri, vuole soltanto la comprensione d’un sentire comune perchè il tumore viene vissuto – da chi lo ha – come una malattia «sociale», qualcosa che non appartiene soltanto al malato ma fa parte d’una dimensione psicologica ed emotiva più ampia, che va anche al di là della cerchia familiare.
La solidarietà
Mandai perciò un sms a tutti i miei compagni di vita, gli inviati speciali con cui avevamo raccontato guerre e uomini nelle terre del mondo. Risposero tutti, subito; e poi, per non affaticarmi, delegarono uno di loro – Vittorio Dell’Uva, del«Mattino» – a seguire per tutti il mio problema, perché, se era una guerra ad avermi segnato, la guerra era stata un tempo vissuto in comune e il mio problema apparteneva perciò a tutti.L’oncologo, intanto, mi aveva suggerito che, per quanto possibile, non mi facessi condizionare dalla consapevolezza del tumore. Seguivo sì una terapia, ma dovevo fingere a me stesso che tutto fosse come prima, prima di quella diagnosi imprevista.
Io a quel tempo, al mattino, tutte le mattine, facevo mezz’ora di nuoto, 25 vasche in piscina. Dovevo continuare a farlo, anche se la chemio era davvero distruttiva. Mi costava fatica ma dovevo continuare. E però un giorno che la terapia mi aveva stancato molto, arrivai alla undicesima vasca e dovetti smettere subito, per non affogare: non riuscivo più a respirare.
Risalii dall’acqua e mi stesi a meditare. Sentivo la mia impotenza, avvertivo il tumore come una sfida perduta. E dunque c’ero arrivato, dovevo proprio morire.
La svolta
Ma invece no, mi dissi di no, scesi di nuovo in piscina, ripartii a nuotare e a contare: una vasca, due vasche, tre vasche. Arrivai alla numero 25, e dissi a me stesso: ora fagli vedere tu, al tumore, chi sia più forte. Nuotai ininterrottamente per 55 vasche, un’ora e passa. E quando uscii dall’acqua, sapevo dentro di me che io avrei vinto, non il tumore.E vinsi io. Il «trial» di Lilenbaum ebbe incredibilmente successo, diventò subito un «protocollo» comunicato nei congressi internazionali, all’interno di un 5 per cento dei successi a livello mondiale. E il tumore «inasportabile» mi fu asportato con un intervento molto rischioso. (Settima considerazione) Nella battaglia individuale contro il tumore, la componente psicologica è fondamentale. Il lavoro di Lilenbaum è stato preziosissimo, però ho imparato che la forza, l’energia, che scateni dal cervello, la tua volontà di non cedere al dominio del cancro, è una componente essenziale della terapia medica.
L’altro ieri però, dopo i controlli periodici di tutti questi anni, controlli sempre «negativi», l’ultima Pet ha scoperto che ho di nuovo un tumore, nell’altro polmone, il solo che mi è rimasto. Inizierò presto la terapia, e non ho alcuna paura. Quando mi chiedono come sto, rispondo: «Sto bene, ho un tumore ma sto bene». Lo chiamo con il suo nome, tumore, e so che posso batterlo. Voglio però che lo sappiano anche quelli che hanno un tumore, e i loro familiari, e i loro amici. Perchè devono imparare che si possono nuotare 55 vasche, e alla fine anche si vince.