Quando i Khmer Rossi trasformarono la Cambogia in un cimitero. Mimmo Candito, La Stampa

di Redazione Blitz
Pubblicato il 20 Aprile 2015 - 14:37 OLTRE 6 MESI FA
Quando i Khmer Rossi trasformarono la Cambogia in un cimitero. Mimmo Candito, La Stampa

Quando i Khmer Rossi trasformarono la Cambogia in un cimitero. Mimmo Candito, La Stampa

ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno “Quando i Khmer Rossi trasformarono la Cambogia in un cimitero” di Mimmo Candito della Stampa.

Quarant’anni ieri. Ruggivano nei cingoli e sbuffavano ondate impestanti di fumo nero, a ogni accelerata, i vecchi carri armati cinesi dei Khmer Rossi, quando, il 17 aprile del ’75, entravano per le strade di Phnom Penh con l’orgoglio prepotente dei vincitori. Una guerra finiva, dopo un’eternità di rivolte, di colpi di stato, di violenze etniche; sembrava la pace, per il Cambogia. Nelle macchie colorate dei sarong, la gente, ai lati delle strade, salutava le sbuffate di fumo e le bandierine sulle torrette, felice, in una festa di popolo. Ma durò soltanto lo spazio corto del mattino, nessuno poteva immaginare che, in quelle stesse ore, cominciava invece lo sterminio di massa.
L’esodo totale
Gli altoparlanti ordinarono subito di abbandonare, tutti, la città, di andare nelle campagne, «temporaneamente»; lunghe file silenziose riempirono le strade ch’erano state felici per appena uno sventolio di mani; chi poteva portava qualche provvista, molti lasciarono Phnom Penh senza nemmeno una borsa. L’esodo fu totale, la capitale si svuotò d’ogni vita, diventò una città fantasma.
Quell’ordine temporaneo non fu mai ritirato, e il comando di quel 17 aprile si fece per sempre ultimativo, senza ripieghi. Quando lo raccontammo, allora e poi negli anni a seguire, e le notizie filtravano a fatica, che sembravano impossibili nel loro agghiacciante catalogo di orrori, lo chiamammo «l’ultimo genocidio del secolo». (Ma sbagliavamo: la barbarie avrebbe avuto ancora un suo parto, vent’anni dopo, nelle foreste nere del Ruanda).
La storia della Cambogia, in quei quattro anni del potere Khmer, dal ’75 al ’79, è una storia che sembra rivivere oggi negli orrori angoscianti dei video dell’Isis, con quei bambini improvvisamente adulti che tra Siria e Iraq sparano e ammazzano senza turbamento. I Khmer arruolarono i bambini perchè ancora puri dalle tentazioni del capitalismo, e ne fecero strumenti impietosi di guerra; gli diedero kalashnikov e ordini da obbedire ciecamente, attribuendogli poteri di vita e di morte di cui nemmeno conoscevano il senso. Dando realtà concreta a una storia irreale di Golding, tentarono di trasformare la Cambogia in un folle esperimento di comunismo rurale autarchico, rovesciando il processo storico del passaggio dalla «campagna» alla «città» e portando a lavorare nei campi l’intera popolazione.
Chiuso nel recinto di una storia che voleva ignorare il resto dell’Asia, Thailandia, Laos o Vietnam che fossero, immaginarono un percorso politico nazionalista dove la rigidità d’una lettura leninista dell’esercizio del potere si fondeva con un ideale astratto della costruzione d’una società, in una palingenesi delle lezioni filosofiche apprese alla Sorbonne (l’intera classe dirigente della penisola indocinese si formava allora in Francia, orizzonte metropolitano di riferimento e poi oggetto di disprezzo nell’insorgenza del postcolonialismo degli anni ’50 e ’60).
I «killing fields»
I campi di concentramento diventarono la residenza di milioni di disgraziati, colpevoli soltanto del non appartenere al mondo contadino, e più tardi li conoscemmo con il nome inglese di «killing fields» (che fu anche un film di Roland Joffè); si creò un universo segregazionista, che fece morire di stenti e di assassini senza colpa almeno 1.386.734 «borghesi» (quanti ne contò, poi, nelle fosse comuni una commissione internazionale). Pol Pot, laureato anch’egli alla Sorbonne, signore spietato del destino di un intero popolo, fu l’icona di questa follia collettiva.
La guerra di Cambogia è stata la guerra di un tempo nel quale si combattevano battaglie che erano ancora del passato ma già venivano usate a costruire equilibri strategici nuovi; c’erano, dentro, i retaggi del colonialismo ma anche le ambizioni dei nazionalismi e la lotta delle grandi potenze per il controllo dell’Asia, con Nixon che dettava la sua dottrina per bloccare l’espansione del comunismo orientale e Russia e Cina che si battevano per consolidare le loro aree di influenza. Con la fuga di quell’ultimo elicottero dal tetto dell’ambasciata americana di Saigon, la storia prese altre strade.
Un tribunale internazionale, ad agosto dell’anno scorso, ha condannato all’ergastolo Khieu Samphan e Nuon Chea, l’uno, capo di Stato del Cambogia polpottiano, e l’altro, ideologo del regime. Sono due vecchi di 83 e di 88 anni, il tempo gli è stato clemente ma in cella devono convivere con 1.386.734 fantasmi.
Quarant’anni ieri. Ruggivano nei cingoli e sbuffavano ondate impestanti di fumo nero, a ogni accelerata, i vecchi carri armati cinesi dei Khmer Rossi, quando, il 17 aprile del ’75, entravano per le strade di Phnom Penh con l’orgoglio prepotente dei vincitori. Una guerra finiva, dopo un’eternità di rivolte, di colpi di stato, di violenze etniche; sembrava la pace, per il Cambogia. Nelle macchie colorate dei sarong, la gente, ai lati delle strade, salutava le sbuffate di fumo e le bandierine sulle torrette, felice, in una festa di popolo. Ma durò soltanto lo spazio corto del mattino, nessuno poteva immaginare che, in quelle stesse ore, cominciava invece lo sterminio di massa.
L’esodo totale
Gli altoparlanti ordinarono subito di abbandonare, tutti, la città, di andare nelle campagne, «temporaneamente»; lunghe file silenziose riempirono le strade ch’erano state felici per appena uno sventolio di mani; chi poteva portava qualche provvista, molti lasciarono Phnom Penh senza nemmeno una borsa. L’esodo fu totale, la capitale si svuotò d’ogni vita, diventò una città fantasma.
Quell’ordine temporaneo non fu mai ritirato, e il comando di quel 17 aprile si fece per sempre ultimativo, senza ripieghi. Quando lo raccontammo, allora e poi negli anni a seguire, e le notizie filtravano a fatica, che sembravano impossibili nel loro agghiacciante catalogo di orrori, lo chiamammo «l’ultimo genocidio del secolo». (Ma sbagliavamo: la barbarie avrebbe avuto ancora un suo parto, vent’anni dopo, nelle foreste nere del Ruanda).
La storia della Cambogia, in quei quattro anni del potere Khmer, dal ’75 al ’79, è una storia che sembra rivivere oggi negli orrori angoscianti dei video dell’Isis, con quei bambini improvvisamente adulti che tra Siria e Iraq sparano e ammazzano senza turbamento. I Khmer arruolarono i bambini perchè ancora puri dalle tentazioni del capitalismo, e ne fecero strumenti impietosi di guerra; gli diedero kalashnikov e ordini da obbedire ciecamente, attribuendogli poteri di vita e di morte di cui nemmeno conoscevano il senso. Dando realtà concreta a una storia irreale di Golding, tentarono di trasformare la Cambogia in un folle esperimento di comunismo rurale autarchico, rovesciando il processo storico del passaggio dalla «campagna» alla «città» e portando a lavorare nei campi l’intera popolazione.
Chiuso nel recinto di una storia che voleva ignorare il resto dell’Asia, Thailandia, Laos o Vietnam che fossero, immaginarono un percorso politico nazionalista dove la rigidità d’una lettura leninista dell’esercizio del potere si fondeva con un ideale astratto della costruzione d’una società, in una palingenesi delle lezioni filosofiche apprese alla Sorbonne (l’intera classe dirigente della penisola indocinese si formava allora in Francia, orizzonte metropolitano di riferimento e poi oggetto di disprezzo nell’insorgenza del postcolonialismo degli anni ’50 e ’60).
I «killing fields»
I campi di concentramento diventarono la residenza di milioni di disgraziati, colpevoli soltanto del non appartenere al mondo contadino, e più tardi li conoscemmo con il nome inglese di «killing fields» (che fu anche un film di Roland Joffè); si creò un universo segregazionista, che fece morire di stenti e di assassini senza colpa almeno 1.386.734 «borghesi» (quanti ne contò, poi, nelle fosse comuni una commissione internazionale). Pol Pot, laureato anch’egli alla Sorbonne, signore spietato del destino di un intero popolo, fu l’icona di questa follia collettiva.
La guerra di Cambogia è stata la guerra di un tempo nel quale si combattevano battaglie che erano ancora del passato ma già venivano usate a costruire equilibri strategici nuovi; c’erano, dentro, i retaggi del colonialismo ma anche le ambizioni dei nazionalismi e la lotta delle grandi potenze per il controllo dell’Asia, con Nixon che dettava la sua dottrina per bloccare l’espansione del comunismo orientale e Russia e Cina che si battevano per consolidare le loro aree di influenza. Con la fuga di quell’ultimo elicottero dal tetto dell’ambasciata americana di Saigon, la storia prese altre strade.
Un tribunale internazionale, ad agosto dell’anno scorso, ha condannato all’ergastolo Khieu Samphan e Nuon Chea, l’uno, capo di Stato del Cambogia polpottiano, e l’altro, ideologo del regime. Sono due vecchi di 83 e di 88 anni, il tempo gli è stato clemente ma in cella devono convivere con 1.386.734 fantasmi.