“La ricchezza non ci salverà”. Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera

Di fronte alla crisi finanziaria mondiale e alle difficoltà della zona euro, Europa di cui l’Italia è uno dei Paesi con i conti meno a posto, un argomento che si sente spesso è che la nostra ricchezza privata ci proteggerà dalle tempeste di default. Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera ci dimostra che il salvadanaio pieno non ci basterà. Vi proponiamo la sua analisi come articolo del giorno

La Banca centrale europea è sempre più in difficoltà. La crescita dell’economia tedesca, più 3,6% nel 2010, consiglierebbe di porre fine a due anni di tassi di interesse straordinariamente bassi e tornare alla normalità. Invece le difficoltà dei Paesi della periferia impongono alla Bce di continuare a creare moneta: vuoi per sostenere quelle banche spagnole che non riescono più a finanziarsi sul mercato, vuoi acquistando titoli pubblici portoghesi, spagnoli, irlandesi, per evitare che un’asta vada male e si rischi un’insolvenza.

Con il trascorrere delle settimane il numero dei Paesi in difficoltà cresce: «A dicembre e agli inizi di gennaio – scriveva ieri la Bce – le tensioni sul debito sovrano non si sono manifestate solo in Grecia, Irlanda e Portogallo, ma anche in altri Paesi dell’area dell’euro quali Spagna, Italia e Belgio».

[…] «Perché è tanto importante crescere?», si chiedono alcuni. Spagna e Italia cresceranno poco, ma sono Paesi ricchi, tra i più ricchi al mondo. La nostra ricchezza privata è la miglior garanzia del debito pubblico italiano.

Compiacersi della propria ricchezza è pericoloso. Di rendita si può vivere anche a lungo, ma impoverendosi.

Un mese fa il governatore Draghi ha ricordato uno scritto preveggente di Carlo Cipolla, I decenni del declino, 1620-1680, in Storia facile dell’economia italiana (Mondadori, 1995): «All’inizio del Seicento la ricchezza italiana era seconda solo all’Olanda. Tre generazioni più tardi l’Italia era un Paese sottosviluppato. Le cause: salari non coerenti con la produttività, un elevato carico fiscale e il potere delle corporazioni che bloccarono l’innovazione».

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