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Quella cena che cancellò l’Urss: Paolo Valentino sul Corriere della Sera

di Maria Elena Perrero |9 Dicembre 2011 14:44

Leonid Kravchuk, Stanislav Shushkevich e Boris Eltsin

ROMA – Vodka, pesce affumicato e sauna: finì così l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche vent’anni fa. Lo racconta Paolo Valentino sul Corriere della Sera. Un banchetto lunghissimo, durato l’intera giornata di quell’8 dicembre del 1991  i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono a Belavezha il trattato che sanciva la dissoluzione dello Stato sovietico.

“Forse Boris Eltsin, Leonid Kravchuk e il padrone di casa Stanislav Shushkevich non si rendevano ancora pienamente conto dell’enormità dell’impresa, consumatasi nella dacia statale di Viskuli, tra le betulle innevate della Belovezhskaya Pushcha. Loro, i primi presidenti democraticamente eletti di Russia, Ucraina e Bielorussia, avevano appena cambiato la Storia del mondo, firmando il documento che segnava la fine legale dell’Unione Sovietica, lo scioglimento del primo Stato comunista”.

“L’8 dicembre 1991 fu il giorno nel quale l’accordo della foresta bielorussa sancì «la cessazione dell’Urss in quanto entità statale» e la nascita al suo posto di un’eterea Comunità degli Stati Indipendenti. Diciassette giorni dopo, nella notte del 25 dicembre, la bandiera rossa veniva ammainata al Cremlino e sostituita dal tricolore di Pietro il Grande”.

“Sono passati vent’anni, un battito di ciglia nella prospettiva storica, (…) da una delle maggiori catastrofi geopolitiche del ventesimo secolo, come ebbe a dire l’ex e futuro presidente russo, Vladimir Putin”.

“Gennady Burbulis aveva allora 45 anni. Era lo stratega politico di Boris Eltsin, il primo vice di Corvo Bianco, ed era considerato dagli avversari l’eminenza grigia del leader russo, che in agosto dall’alto di un carro armato aveva guidato la resistenza al golpe anti-Gorbaciov. Oggi, abbandonata la politica, presiede il Centro studi Strategia”.

“La sua ricostruzione parte da una firma mancata, quella del nuovo Trattato dell’Unione, prevista per il 20 agosto 1991, ma che l’ala dura del Pcus aveva fatto saltare con il suo colpo di mano. ‘Non era nelle nostre intenzioni smembrare l’Urss, volevamo riformarla ed eravamo d’accordo con Gorbaciov. Ma dopo il golpe il processo di disgregazione fu inarrestabile. Già in autunno, nessun istituto dell’apparato sovietico era in grado di funzionare'(…)”.

“Il colpo di grazia furono i referendum sull’indipendenza del 1 dicembre a Kiev e in Kazakhstan. Soprattutto gli ucraini, sotto la guida di Kravchuk, rifiutarono ogni discussione sul futuro dell’Unione nel contesto sovietico, confermando così la profezia di Lenin: se perdesse l’Ucraina, l’Unione perderebbe la testa. ‘Il consenso della Belovezhskaya era l’unica strada rimasta, per tenere tutti dentro, anche le repubbliche più ostili a ogni legame, come Azerbaigian, Moldavia e Armenia. Ma non per questo dobbiamo sottovalutarne l’importanza storica: firmando quel testo, che recepiva quasi tutti gli elementi del Trattato già negoziato con Gorbaciov, abbiamo garantito uno scioglimento pacifico dell’Urss ed evitato una guerra civile sanguinosa per la spartizione dell’eredità sovietica. Inoltre, per la prima volta nella Storia, un gruppo di Paesi ha deciso di rinunciare alle armi nucleari, accettando la Russia come erede legale dell’Unione Sovietica e trasferendo sul suo territorio tutto l’arsenale atomico’.(…)”.

“Vent’anni dopo, Burbulis ammette che molte speranze di allora sono andate deluse. ‘Volevamo fare meglio e abbiamo fatto come al solito’, dice citando la popolare battuta di un ex premier russo. Troppe energie dedicate a risolvere i problemi di potere interni, invece di sviluppare una vera integrazione della nuova comunità. Errori macroscopici nel processo di privatizzazione, trasformatosi in un gigantesco schema di corruzione. E non ultimo, il voltafaccia dell’Occidente: ‘Qualcuno ha avuto paura, anni dopo me lo hanno detto in tanti: se avessimo aiutato la Russia, sarebbe rinata potente come la Germania e il Giappone nel Dopoguerra. Non ci fu un Piano Marshall per noi. E fu un grave errore: avevamo liberato il mondo da un impero pericoloso e contavamo sul sostegno della comunità internazionale, pensavamo a una Russia ancorata all’Europa’. Non dovete stupirvi, è la morale di Gennady Burbulis, se oggi sulla Moscova qualcuno coltiva sogni di grande potenza: ‘È la reazione a quella posizione miope dell’Occidente, ci dicono che Europa e America riconoscono solo la legge del più forte. Ma da noi la forza si traduce nel brandire le armi’, dice, con riferimento neppure tanto velato alle ambizioni neoimperiali di Vladimir Putin”.

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