DI PIETRO PUO’ COMPIACERSI DI SE STESSO

La Stampa pubblica un commento di Marcello Sorgi sulla politica di Di Pietro e sui suoi cresenti consensi intitolato ”Di Pietro, l’anomalia che vince sempre”. Lo riportiamo di seguito:

”Oltre a segnare la fine dell’ultimo tentativo di dialogo tra governo e opposizione sulla giustizia, l’appello del Capo dello Stato a non toccare i principi fondamentali della Costituzione sancisce una nuova vittoria, l’ennesima, di Tonino Di Pietro, l’unico leader che nei giorni del disgelo tra Berlusconi e Veltroni, e dopo settimane di guerriglia politico-giudiziaria, si era espresso contro, radicalmente contro, l’ipotesi di un accordone per ridimensionare il potere dei magistrati.

La posizione di Di Pietro, non nuova, ma espressa, se possibile, in termini ancora più duri e insultanti, aveva messo sull’avviso Bossi e Fini, leader del centrodestra più avvezzi a fiutare il pericolo di trappole politiche. Senza per questo distogliere Berlusconi e Veltroni da un guardingo, quanto inutile, avvicinamento. Ma ora che tutto è finito, e di nuovo il premier e il leader del Pd si guardano in cagnesco, Di Pietro può davvero compiacersi con se stesso: stando fermo, è nuovamente riuscito a ricavare il massimo vantaggio dall’altrui dimenarsi.

Il Cavaliere, ponendosi quotidianamente delle accuse che l’ex pm di Mani Pulite gli elargisce – paragonandolo senza mezzi termini ai peggiori dittatori del mondo o a ogni una sorta di delinquente comune – non si accorge, in pratica, di legittimarlo come suo unico vero oppositore. Mentre Veltroni, indeciso tra attaccare o no Di Pietro (e le Procure che tormentano le amministrazioni di centrosinistra), e rompere o no con lui, paga il prezzo, divenuto troppo alto, di un’alleanza che non sta dando alcun frutto. Questo del Pd con Italia dei Valori è un calvario ai limiti del masochismo.

Fino a prima delle ultime elezioni infatti, Di Pietro era uno dei tanti capi di uno dei tanti partitini del centrosinistra, che si dibattevano nella rete di una legge elettorale infausta e che come altri non sarebbe mai tornato in Parlamento. Ma dal momento in cui, grazie all’accordo federativo con i Democratici, è riuscito a passare attraverso la strettoia e a superare lo sbarramento, Tonino è rinato a nuova vita. Al punto che, se davvero Veltroni decidesse di mollarlo, si può scommettere che ne ricaverebbe un vantaggio. A Di Pietro, ormai, non servono stampelle: la sua identità, il suo climax e il suo spazio politico sono più che definiti.

E nella confusione della situazione attuale, non possono che allargarsi. Come ha detto Napolitano a Berlusconi cercando di consolarlo, Tonino con la sinistra non c’entra niente. E’ un moderato che si rivolge ai moderati, capendo, come Berlusconi aveva capito molto prima di lui, che il moderatismo italiano ormai non ha più niente della vecchia rassegnazione democristiana. In qualche modo, anzi, è diventato radicale, moralista, incazzato, cioè perfetto per leader populisti moderni che siano in grado di agitarne le file con parole d’ordine estreme. In un certo senso, poi, Di Pietro è anche di destra: la sua contestazione del cosiddetto regime, la sua continua denuncia della violazione di ogni regola etica, riecheggiano qualcosa della rivolta antisistema di Almirante e dell’ultimo Msi: di qui le gelosie, evidenti negli ultimi tempi di Fini e dei più avvertiti tra i colonnelli di An, il loro nervosismo, le loro inquietudini.

Poi però c’è il Di Pietro che piace a sinistra, il beniamino degli intellettuali più radicali che non credono nel Pd, il mondo dei Travaglio, dei Flores d’Arcais, dei Colombo, che un po’ lo segue e un po’ lo sfotte per i suoi ricorrenti errori di lingua italiana. Che poi lo strafalcionismo sia un tic o un ricercato artificio del capo di Italia dei Valori, nessuno può dirlo. Ma tutti possono apprezzarlo ogni sera nei Tg o nei maggiori talk-show, di cui Di Pietro è protagonista fisso, peraltro in una stagione in cui gli altri leader giocano in difensiva per prudenza, o si caratterizzano per le assenze.

Imprevedibile in economia (l’altra sera a Ballarò, alla vigilia dello sciopero generale e in piena alzata di scudi Pd, ha fatto la svolta sulla manovrina del governo, al grido di "Meglio di niente"), inesistente in politica estera (forse pensa che al suo elettorato non interessi), Tonino, a modo suo, è capace di competere anche con Bossi, nel mettere all’indice il degrado del Sud e nel levare moniti sul rischio immigrati. Nella contesa che lo oppose a Mastella, quando entrambi erano ancora al governo, non c’era solo la tradizionale contrarietà alla riforma della giustizia.

C’era piuttosto l’antinapoletanità urlata contro un beneventano come il vecchio Clemente, eletto a simbolo di tutte le clientele e di tutti i mali meridionali, è predicata da un molisano come Di Pietro, con un accento altrettanto marcato e non troppo lontano da quello di Portici o di Gomorra, usato per difendere un magistrato calabrese. Sono queste qualità, queste capacità di creare corto circuiti senza mai prendere la scossa, di essere insieme alleato e avversario, di rappresentare un’anomalia sapendone approfittare, ad aver fatto di Di Pietro e del suo partito la vera sorpresa di questa legislatura. Una novità che cresce giorno dopo giorno e non accenna a fermarsi. Che porterà, tra l’altro, domani, il Pd alla disfatta in Abruzzo, regalando intanto a Tonino un’altra sua vittoria nella sconfitta”.

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