LA GUERRA AL TERRORE E IL SENSO DELLA CROCIATA

La Repubblica pubblica un commento di Lucio Caracciolo sulle origini degli attacchi terroristici a Mumbai intitolato ”Una guerra senza crociate”. Lo riportiamo di seguito:

Questa guerra non si può vincere". Così, in un momento di candore, George W. Bush, il presidente che ha legato il suo nome al tentativo di estirpare a mano armata le radici del "terrorismo globale". Più che una guerra, una crociata. Parola che scappò detta a Bush subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle, prima che i consiglieri gli illustrassero l’opportunità di ometterla in ossequio al geopoliticamente corretto.

Ma anche senza definirsi più tale, la guerra al terrore scatenata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ha conservato, in fondo, il senso della crociata. Ed è appunto per questo che non si può vincere. Finché continueremo a vedere in ogni singolo attacco terrorista, dovunque e comunque, un Grande Vecchio globale battezzato Al Qaeda, gli ingegneri del terrore si sentiranno incoraggiati ad alzare il tiro.

Dopo la battaglia di Mumbai, possiamo sperare che la de-ideologizzazione della guerra al terrorismo cominci davvero? Qualche segnale sembra indicarlo. Per Obama e per la sua squadra, addestrata da sette anni di fallimenti americani e alleati nella crociata non dichiarata, sarebbe la premessa ideale per dare una conclusione pragmatica alle campagne militari in corso. Ed evitare la sconfitta totale.

La guerra al terrorismo come ideologia è funzionale alla gestione della paura. Serve a compattare l’opinione pubblica e a legittimare non solo le campagne militari, ma anche i giri di vite domestici – alcuni inevitabili, altri inevitabilmente stupidi – che limitano le libertà di ciascuno. Il guaio è che in tal modo si segue la logica dei terroristi e se ne serve lo scopo principe: la paura, appunto. Anzi i "treni di paura", quelle epidemie di terrore collettivo che attanagliano intere comunità e le inducono a comportamenti irrazionali e autodistruttivi. La risposta americana all’11 settembre, almeno nella sua prima fase, è esemplare di questa sorta di nevrosi, per cui credendo di combattere il nemico lo si esalta. Quasi il terrorismo fosse una superpotenza.

Un approccio pragmatico tende invece a decostruire il Terrorismo nei tanti, effettivi terrorismi – talvolta l’un contro l’altro armati – che per pigrizia, paura o dolo ricomprendiamo sotto quella T maiuscola. Giacché il terrorismo è una tattica, non un soggetto. Dunque non identifica nessuno. Al massimo serve a bollare l’arcinemico. Siamo nel campo della prassi, non dell’ontologia: il terrorista di oggi può diventare l’alleato di domani e viceversa.

Se evolviamo dall’isterismo alla misura imposta dalla ragione, riusciamo a scomporre il problema. Dividiamo il nemico anziché unirlo. Non sconfiggeremo mai il Terrorismo, ma alcuni singoli terrorismi sì, compresi i legami effettivi e non immaginari che ne legano diverse cellule, specie quelle abbeverate alle fonti del jihadismo e di altri fanatismi a sfondo religioso.
E qui torniamo a Mumbai. La strage non è solo un capitolo particolarmente odioso del terrorismo islamista. Nemmeno solo un’intimidazione all’Occidente, i cui cittadini sembravano un bersaglio privilegiato nel mirino dei terroristi, e in specie a Israele in quanto referente occidentale in "terra islamica", come testimonia la strage al centro ebraico. È soprattutto l’ennesimo episodio della guerra India-Pakistan, che si trascina da oltre sessant’anni, tra fasi "calde" e "fredde", scontri militari in piena regola e subdoli attentati. Una guerra senza sbocco.

L’ennesimo lascito di sangue della decolonizzazione alla britannica. Ma molto, molto più pericoloso della Palestina o della Mesopotamia. Qui si fronteggiano due Stati dalle identità inconciliabili, armati fino ai denti, bombe atomiche comprese. A differenza di altri scenari, nel confronto indo-pakistano l’uso dell’arma atomica non è affatto impensabile.

Per questo Obama ha messo il Pakistan in cima alla lista delle sue priorità di politica estera. Infatti, la stessa guerra afgana è anche un fronte della partita India-Pakistan, con Delhi inizialmente in vantaggio e Islamabad alla riscossa grazie ai "suoi" taliban e ad altri ribelli e tagliagole che amiamo classificare sotto quella comoda etichetta. Per riconquistare quel territorio che nella dottrina pakistana rappresenta la "profondità strategica" per proteggersi da un’invasione indiana e insieme il trampolino di lancio per estendere la propria influenza in Asia centrale.

Nella sua crociata ideologica, Bush aveva presentato il Pakistan come prezioso alleato nella guerra afgana, "dimenticando" che i taliban nascevano nelle madrasse pakistane, anche per impulso dell’intelligence locale. La fonte del jihadismo era così deputata a combattere il jihadismo, immaginiamo quanto sinceramente. Essendo per questo foraggiata con decine di miliardi di dollari, finiti nelle tasche delle corrottissime élite politico-militari di Islamabad o virati in progetti e sistemi d’arma concepiti per combattere l’India, certo non i taliban.

Nell’approccio pragmatico che speriamo Obama e il resto del mondo civile vorranno adottare contro i terroristi, conviene dunque tornare a chiamare le cose con il loro nome. Il Pakistan, tramite l’Inter-Services Intelligence (Isi), è il garante se non il mandante dei terroristi di Mumbai. Che certo non sono solo pakistani: fra loro anche islamisti indiani e di altri paesi. Da sempre l’Isi promuove e finanzia cellule jihadiste incistate nella società indiana, soprattutto in funzione delle proprie aspirazioni sul Kashmir, il territorio simbolico-strategico al centro del contenzioso con Delhi. Così come i servizi indiani sostengono tutte le forze, compreso il pallido governo Karzai, che sullo scacchiere del subcontinente e dell’Asia centrale minano gli interessi del Pakistan.

È in questo incrocio di ambizioni e strategie contrapposte che conviene interpretare la strage di Mumbai. Senza indulgere in generalizzazioni o in "ismi", ma individuando le responsabilità individuali e istituzionali, denunciandole e, per quanto possibile, colpendole. Con la determinazione e la cautela imposte dal rischio nucleare. E con la consapevolezza che senza un compromesso geopolitico fra India e Pakistan, che risolva le dispute resolubili e metta la sordina a quelle insolubili, gli orrori di queste ore sono destinati a riprodursi, moltiplicati, in un futuro non lontano.

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