Dieta mediterranea? L’è morta dice Politico, Meloni ci fa politica, io metto i puntini sulle i - Blitzquotidiano.it (foto Ansa)
Dieta mediterranea? L’è morta dice Politico: la politica è entrata in cucina, Giorgia Meloni ne fa un punto chiave della sua polemica europea (e solo se vivi sottocoperta senza mai alzare la testa o sei un trinariciuto non ti rendi conto di come i tedeschi, i Verdi in particolare, abbiano trasformato un’idea di libertà in una prigione di regole assurde).
Nei giorni scorsi un lungo articolo a firma di Alessandro Ford su Politico.com, giornale online di nascita americana e di recente proprietà tedesca, ha detto l’ultima parola: “La dieta mediterranea è una bugia”. L’articolo contiene alcune verità. La cucina italiana non esiste ma costituisce la somma delle gitante cucine locali. Ci sono imprecisioni frutto di pregiudizio ideologico e un interessante flash-back sull’origine americana della dieta mediterranea: la inventò quello stesso Ancel Key padre delle razioni K dell’esercito americano nella seconda guerra mondiale.
Due anni fa il Financial Times pubblicava una lunga intervista a firma di Marianna Giusti con Alberto Grandi, professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma, dove insegna anche Storia dell’integrazione europea, “autore di oltre cinquanta lavori tra articoli scientifici e monografie in Italia e all’estero”.
Grandi ha buon gioco nel ridimensionare il mito della cucina italiana e della dieta e anche nel ridefinire certi imperativi gastronomici come la carne di maiale nei tortellini, dimostrando che anticamente c’era carne di pollo (il fatto ha un certo peso in Emilia dove la presenza di musulmani è molto alta).
Vorrei aggiungere la mia versione, visto che potrei essere padre di Grandi e forse nonno di Giusti e Ford. Loro scrivono sul sentito dire, io c’ero. Nato in una famiglia povera in una città ormai disperatamente provinciale come Genova, quando ancora la nostra terra era martellata dai bombardieri inglesi. Cresciuto fra le macerie di quelle bombe, con una madre dello scorpione albergo di pregiudizi anche in tema di alimentazione.
Avevo 3 anni quando si diffusero i primi formaggini Mio e i fumetti di Tex: vietati entrambi. Si poteva mangiare solo stracchino, fontina, taleggio, Bel Paese e Roccaverana.
I soldati americani portarono le prime chewing gum o ciungle: per carità, una signora dal panettiere le aveva detto che le gomme succhiavano il sangue delle gengive.
Andavo alle elementari in una scuola, che oggi non c’è più, dei Fratelli Cristiani, bell’esempio di scuola interclassista e di rigore formativo. La mensa si chiamava refettorio e ancora oggi ricordo con nostalgia quei meravigliosi cachi morbidi e pieni di semi e quei bicchierini di plastica o cartone con una crema alla nocciola che ancora si chiamava surrogato, eco dei mesi delle sanzioni pre belliche e dell’autarchia. Quando si mutò in Nutella, ci misi del tempo per adeguarmi.
Il mercoledì pranzavo a casa: gnocchi al pesto preparato nel mortaio da mia madre e moscardini in umido, come ancora mangi da Vittorio a Recco. Quando era stagione la gioia era costituita da un piatto di bianchetti, che i milanesi chiamano alla genovese gianchetti per farti sentire che sono poliglotti e che al Sud chiamano neonata, di provenienza calabrese.
Nel caffellatte del mattino biscotti del Lagaccio di Preti o Panarello, che ancora oggi si trovano e focaccia, fugassa in dialetto e per i milanesi.
Restai interdetto quando trascorsi una vacanza a Roma a casa di mio zio in Prati. La nostra focaccia la chiamavano pizza e continuano a chiamarla così.
La pizza napoletana arrivò a Genova ben dopo la guerra e non era molto diffusa. Restai impressionato, nel 1968 nel mio primo viaggio a New York, scoprendo quanto la pizza napoletana fosse diffusa da quelle parti.
Una nota e una rettifica merita quel che Grandi dice del panettone, che in casa mia si chiamava pandolce anche perché in genovese si dice pandoce mentre la traduzione di panettone non esiste
Dice Grandi: “Prima del 20° secolo, Panettone era una focaccia sottile e dura piena di una manciata di uvetta. Era mangiato solo dai poveri e non aveva collegamenti a Natale. Panettone come lo conosciamo oggi è un’invenzione industriale. Negli anni ’20, Angelo Motta del Motta Food Brand introdusse una nuova ricetta di pasta e iniziò la “tradizione” di un panettone a forma di cupola. Poi negli anni ’70, di fronte alla crescente concorrenza dei supermercati, i panetterie indipendenti hanno iniziato a produrre da soli il panettone a forma di cupola”.
Ma io sono cresciuto col pandolce a Natale. In casa mia guardavamo con sospetto quella montagnosa di pasta gialla che veniva da Milano.
Credo che il pandolce genovese sia piuttosto di origine mediorientale come gabibbo viene da habib, amico.
Nel Ghetto di Roma c’è un negozio sempre affollato che vende prodotti tipici della cucina ebraica. Gli ebrei sono i più autentici abitanti di Roma da prima di Cristo, come mi insegnò il fiorentino Sergio Lepri e la cucina romana e in larga misura tributaria della tradizione giudaica.
In questo negozio vendono un pane dolce con la forma del filone, zeppo di canditi e uvetta. Quando feci notare che era come il pandolce genovese, la proprietaria mi guardò storto ma avevo ragione io.
In realtà a Genova ci sono due tipi di pandolce, quello alto e morbido tipo Panarello o Grondona e quello basso e duro. Mentre il primo dopo qualche giorno rafferma, l’altro dura anche un anno.
In casa mia ogni Natale era rallegrato dal pandolce di Panarello.
Poi mio zio, che lavorava a Cornigliano, portò quello di Rebora Clemente e scoprii nuovi orizzonti. Ancora oggi mi faccio spedire a Roma il pandolce basso di Seghezzo da Santa Margherita Ligure: dura un anno e faccio felici tanti amici.