Diffamazione. Nell’Italia della depenalizzazione ha senso la legge-bavaglio?

Diffamazione. Nell'Italia della depenalizzazione ha senso la legge-bavaglio?
Il decreto legge con cui il governo ha introdotto l’articolo 131 bis del codice penale, quello sul “giudizio di particolare tenuità del fatto”

ROMA – Diffamazione a mezzo stampa: l’Italia è obbligata dalla Corte Giustizia europea a togliere il carcere come pena per i giornalisti riconosciuti colpevoli di diffamazione. La legge che dovrebbe ottemperare a questo dovere è in realtà piena di elementi punitivi per chi lavora e chi possiede testate giornalistiche, in pratica un “bavaglino”, “bavaglietto”, “mezzo bavaglio” all’informazione.

Ora è ferma in seconda lettura alla Camera dei Deputati. Ma forse il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha “bruciato” tutti i politici e magistrati che stanno riscrivendo la legge e che partecipano al dibattito sul reato di diffamazione, sulla pubblicazione delle intercettazioni, sulla libertà di stampa. Perché con il decreto approvato dal governo, che prevede la depenalizzazione dei reati lievi, ha superato tutta la questione del “bavaglio-bavaglino-bavaglietto“.

Contro il decreto legge, che introduce nel codice penale l’articolo 131 bis nel quale si disciplina “il giudizio di particolare tenuità del fatto”, si sono scagliati destra, sinistra giustizialista, magistrati. Le loro argomentazioni sono sintetizzabili in questo titolo del Giornale: “Il governo è ossessionato dalla corruzione e poi chiude gli occhi su furti, truffe e violenze”. Critiche alle quali Orlando ha risposto che non c’è stata “nessuna depenalizzazione. Dire che abbiamo depenalizzato reati gravi è una bufala”. Scrive Sandra Amurri sul Fatto Quotidiano:

La novità, con l’inserimento nel codice penale dell’articolo 131 bis, è l’introduzione del “giudizio di particolare tenuità del fatto” . Criterio da cui il pm non potrà prescindere e che pone dei paletti. La particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. La particolare tenuità del fatto, a sua volta, si articola in due ulteriori indici: le modalità della condotta di chi ha commesso il reato e l’esiguità del danno o del pericolo che l’azione ha comportato. “Va precisato – sottolinea il ministro – che il nuovo istituto, per come è stato concepito, non sarà dunque applicabile al soggetto che ha precedenti penali e le cui condotte criminose sono quindi reiterate”. Mentre l’art. 4 stabilisce che, anche nei casi di archiviazione del reato che rientra tra quelli di particolare tenuità del fatto, è prevista l’iscrizione nel casellario giudiziale dove ne resterà traccia per evitare che chi lo ha commesso, nel caso di un nuovo procedimento, possa essere considerato “soggetto non abituale”. Così come va sottolineato che un reato per rientrare tra quelli di tenuità debba possedere entrambi i requisiti: tenuità dell’offesa e non abitualità e che si applica solo a quei reati puniti con pena pecuniaria, sola o congiunta a pena detentiva, e ai reati punibili fino a 5 anni.

Il nuovo istituto non potrà essere applicato, ad esempio, a reati come maltrattamenti in famiglia, violazione degli obblighi di assistenza famigliare, atti persecutori come stalking, furto in abitazione, furto aggravato; reati che pur essendo punibili con pene fino a 5 anni non rientrano nella tipologia della “particolare tenuità del fatto”. Ma c’è di più. Il Decreto prevede che una volta che il pm ha valutato l’archiviazione, la vittima potrà dirsi soddisfatta o diversamente chiedere il risarcimento. Nel secondo caso, se chi ha commesso il reato come, ad esempio accadrebbe per il furto di una scatoletta di tonno al supermercato, non potrà pagare direttamente il bene sottratto, il procedimento si sposterà sul piano civile. Questo, ovviamente, non vale per il reato di maltrattamento degli animali, non potendo un cane che ha subìto violenza esprimere la sua volontà. In sintesi: se una persona denuncia qualcuno per schiamazzi notturni, o il vicino che la importuna suonando il campanello, e il pm propone l’archiviazione, ha due possibilità: ritenersi soddisfatta e rinunciare al risarcimento o vice-versa chiedere che venga aperto il procedimento civile. Se chi compie il reato lo ripete 15 giorni dopo, viene processato non rientrando più nella fattispecie fissata dal decreto.

Alla luce di questi sviluppi, ha ancora senso discutere di una legge, quella che riscrive il reato di diffamazione a mezzo stampa, che prevede sanzioni fortemente penalizzanti per la libertà e l’indipendenza del giornalismo, come le multe al singolo giornalista autore dell’articolo diffamante e la scelta della sede del processo non dove è situata la testata giornalista ma nel tribunale del querelante? Non sarebbe meglio togliere il carcere per la diffamazione e basta, come ci chiede la Corte europea, ed evitare di scrivere leggi pasticciate e dannose? 

 

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