Ferragosto in città, quanti giovani non sono partiti per le vacanze perché non se lo sono potuto permettere?
Forse meno di quanti si possa pensare, gli italiani sono meno miserabili di quanto i partiti vogliano loro far credere. (Per avere un’idea del progresso compiuto da quando l’Italia è repubblica e siamo entrati nell’orbita americana vi esorto a guardare un bellissimo film del 1950, “Il cammino della speranza”).
Ai giovani rimasti a casa dedico questa nota, consapevole del fatto che è un concentrato di nostalgia e vanità ma con la speranza di dare conforto e motivazione ad almeno uno di loro.
Ho vissuto per molti anni quella sensazione mista di stretta al cuore e di dominio del vuoto che si prova ad aggirarsi per una città esodata.
Poi ho cominciato a lavorare ma nei giornali comunque erano gli anziani a andare in vacanza in agosto.
Ora che sono avanti negli anni, mi godo l’estate portoghese, attenuata dal vento dell’Atlantico, senza gran desiderio di dislocarmi tra la folla.
Le città, quelle italiane per prime, sono animate dai turisti, bar, ristoranti e supermercati sono aperti. Ci si accorge che è agosto dal traffico scorrevole. Perfino Torino, un tempo deserta, è piena di gente.
Bene, direte. E allora che vuoi?
Vorrei proporvi un esempio, il mio, per consolarvi un po’ e aprirvi un orizzonte positivo. Anche per me, dopo gli anni duri, sono venuti i Ferragosto al mare o in terre e continenti lontani.
In mezzo ci sono stati studio lavoro e fortuna che mi hanno fatto progredire e vivere meglio dei miei genitori e dei mieii avi. Non è una ricetta infallibile, la mia.
Ed è ben vero che quando sei morto torni polvere o cenere e tutto quanto hai accumulato passa ad altri. Se non si disperde.
Ma nell’attesa della morte i soldi possono fare la differenza nella qualità della vita e anche della malattia.
Rinunciare a agire per crescere di condizione e migliorare sempre è un peccato capitale, è un modo di venir meno alla nostra missione nella vita. “Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza “.
Anche se non siamo tutti uguali e dobbiamo essere consapevoli e accettare la nostra peculiarità senza invidia per gli altri, la regola codificata da Dante attraverso Ulisse è una delle norme fondamentali della vita. Non rispettarla è grave colpa in tutte le religioni e laicità.
Faccio una serie di premesse.
Nessuno di noi ha merito per come nasce. 1. Se nasci ricco e cresci in una famiglia non è merito tuo, se nasci povero in una famiglia città o paese ai livelli minimi del consorzio umano non è colpa tua.
2.Si può essere felici o infelici sempre e comunque, dipende anche dal nostro carattere.
3.Il nostro carattere non dipende da noi ma da influenze che chi come me ci credo attribuisce agli astri, altri può attribuire al Padreterno o alla Natura.
Il risultato è lo stesso. Il carattere, come il coraggio per Manzoni, non te lo dai. Puoi controllarlo, tenerlo a freno, dominarlo. Ma anche questo è difficile dire quanto sia merito nostro o dipenda da una componente nascosta del nostro stesso carattere.
4.Il benessere materiale non è decisivo rispetto alla felicità. Tanti privilegiati piangono infelicità e miseria. Certo aiuta a affrontare meglio le avversità della vita. Ma accontentarsi di quel che si ha è una regola per vivere bene.
Il benessere materiale deve essere una conseguenza del nostro impegno, non il suo principale scopo.
Dobbiamo avere sempre in mente che raramente la vita di un essere umano è felice o infelice dal primo all’ultimo giorno. Io non ho conoscenza di casi assoluti.
5.Ma non è per vivere nel lusso che noi dobbiamo studiare, lavorare, crescere dentro. Semplicemente rispondiamo a un imperativo della natura umana.
Dentro di noi c’è una molla che ci spinge a migliorare la nostra condizione che non è solo materiale ma è di cultura. Cultura vuol dire non solo conoscenza ma visione del mondo e della vita, modo di rapportarsi al prossimo.
Il denaro ne può venire o meno e anche andarsene. C’è chi è nato per fare i soldi, c’è chi li fa per un colpo di fortuna, c’è chi li perde per un calcolo sbagliato, un colpo di hubrys o una sciagura.
Quel che conta è il rapporto con noi stessi, non essere venuti meno alla nostra missione nella vita.
Non mi sento in grado di dirvi quale sia la missione di ciascuno di noi. Forse la parabola dei talenti nel Vangelo offre un buon paradigma.
Quello che la vita ti ha dato devi metterlo a frutto. Per aiutare gli altri, aggiunse un professore di filosofia del mio liceo, imprimendo in me un senso del dovere che mi ha guidato fino a oggi.
Da alcune decine di migliaia di anni la società umana è passata da una condizione ugualitaria e/o matriarcale a quello che è ancora oggi. Una piramide alla cui base c’erano schiavi e plebei, via via salendo per strati sempre più ristretti dove i più ricchi dominano e sopra tutti sta un sovrano.
Molto è cambiato nell’ultimo paio di secoli, con una accelerazione crescente. Questo non deriva da una mutata attitudine delle classi dominanti né dalle lotte di rivoluzionari e famministe.
Nella società industriale, capitalista come socialista, i numeri delle vecchie (o nuove) aristocrazie non erano sufficienti per governare un sistema economico articolato e complesso come quello in cui viviamo. Per forza ci hanno dovuto cooptare noi figli della gleba.
Così le donne. Quando ero ragazzo, nel giornale della mia città lavoravano 50 uomini e una donna. Oggi credo che le donne siano la maggioranza. Così credo sia stato un po’ in tutti i giornali (Matilde Serao è una eccezione), come in tutti i mestieri, dalla fabbrica allo scranno del giudice.
Ma non illudetevi, ragazzi e ragazze di belle speranze. La classe dirigente o dominante si rinnova e si allarga. Ma tra voi brillantissimi e i miei figli e nipoti un po’ tonti e fannulloni sceglierò sempre questi.
Come una volta la guerra era un modo per selezionare i più forti e cattivi e prepotenti (col rischio che sopravvivessero i più vili) oggi comunque la società ha sviluppato i suoi anticorpi mediante meccanismi di selezione che compensano la naturale propensione umana.
Qui vi potete e dovete inserire. Le leve sono innanzi tutto lo studio e la disciplina, nel senso non solo di rigore di vita e di sacrificio ma anche di rispetto e obbedienza a chi ci guida: la slealtà non paga mai, non si tratta della santa obbedienza dei monaci ma della consapevole adesione e convinzione che solo uniti si vince. Di quanta slealtà sono stato oggetto. Quegli illusi si sono dissolti da soli.
A queste regole mi sono sempre attenuto: studio, lavoro, lealtà e anche solidarietà verso i più deboli mi hanno guidato dai banchi di scuola a oggi che sono vecchio.
Un’ultima regola. Fare sempre di testa propria
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