Giovanni Toti, martire o vergogna? Il caso del presidente della Liguria arrestato per corruzione e peggio e tenuto ai domuciliari finché non si è dimesso trova riscontro opposti nei giornali.
Claudio Cerasa, direttore del Foglio, è tagliente e secco:
“Un governatore eletto dal popolo, ai domiciliari da mesi, indagato da anni, accusato senza uno straccio di prova, costretto alle dimissioni a causa di un ricatto: non c’è nulla contro di te ma se vuoi essere libero devi dimetterti. Non si chiama giustizia. Si chiama vergogna”
Stefania Aloia, direttore del Secolo XIX di Genova in trasferta da Repubblica, controbatte.
Giovanni Toti da giovedì va ripetendo che quanto successo in Liguria «è un attacco alla politica». Ma di quale politica parla?
Nelle interviste rilasciate subito dopo la liberazione l’ex presidente ha descritto la sua vis amministrativa come quella che ha fatto definitivamente uscire la Liguria dal grigiore e dall’irrilevanza a cui l’avevano destinata i suoi predecessori. E nel tratteggiare con Stefano Zurlo del Giornale gli altri da sé, quelli ai quali non vorrebbe che la regione venisse riconsegnata, insomma «quei boiardi rossi che forse vorrebbero tornare a un futuro che assomiglia al trapassato remoto», ha tenuto a sottolineare: «Loro inseguono un paradigma moralista».
In nessuna epoca storica il rapporto tra etica e politica è stato facile, e certamente di volta in volta il fattore interpretativo dà differenti chiavi di lettura alle azioni di chi amministra la cosa pubblica. Ma l’uso di Toti della parola “moralista”, in una torsione semantica tutt’altro che involontaria, sposta bruscamente il baricentro di quella interpretazione. E trasforma ciò che è morale, cioè rispettoso di un quadro valoriale condiviso, in ciò che è falsamente morale o lo è in modo ipocrita.
Dunque, al di là dello sviluppo e delle magnifiche sorti e progressive della Liguria al quale non c’è coalizione che non aspiri, esiste un solo discrimine sul quale dovrebbero davvero interrogarsi gli elettori: la politica che vogliono deve avere come prerequisito un legame inscindibilmente con la morale oppure no? Potrebbe essere l’occasione per sgomberare il campo dagli infiniti malintesi, che se costruiti ad arte diventano una trappola micidiale già vista.
Parlare con gli imprenditori non è amorale: ma…
Per spazzare via la discussione dagli equivoci va chiarito che parlare con gli imprenditori non è amorale: lo è se lo si fa in un contesto selettivo e non rispettando i ruoli. Neanche aiutare l’imprenditoria è amorale: lo è se il supporto non mette tutti gli aventi diritto in posizione di partenza paritaria. Considerare la sanità privata come un patrimonio non è amorale: lo è se prima non si mette in sicurezza quella pubblica, lasciandola senza risorse e in una costante condizione di debolezza. Occuparsi del porto non è amorale: lo è se non si privilegiano gli interessi della collettività. Coltivare la vocazione turistica di un territorio non è amorale: lo è se si sceglie un modello non sostenibile. E così via.
La moralità, insomma, non impedisce lo sviluppo, semplicemente ne determina il sistema. Non è di sinistra né di destra. È solo di una politica perbene. Intellettualmente onesta.
Cerasa su X
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