
La storia della Fiat e quella d’Italia devono molto a questa intervista di Giampaolo Pansa 8nella foto Ansa) su Repubblica nel 1979 - Blitzquotidiano.it
La storia della Fiat e anche quella d’Italia devono molto a una intervista che Repubblica pubblicò l’11 ottobre 1979.
Il titolo era: “Nella gabbia di Mirafiori”. La firma era quella di Giampaolo Pansa, un grande giornalista sempre, che in quei tempi incuteva rispetto a sinistra.
Riporto uno stralcio dell’intervista.
Premetto un ricordo personale con una punta di orgoglio.
Pansa, che conoscevo dagli anni in cui, cronista dell’Ansa, lo accompagnavo per Genova, mi chiede di parlare con un capo.
Callieri me ne mandò uno al mio ufficio al secondo piano di corso Marconi (ufficio che fu del mitico Gino Pestelli e che io, secondo Maria Rubiolo, indegnamente occupavo; Pestelli era capo redattore della Stampa nel 1925 e fu autore del titolo “La Camera vota Mussolini, il cuore del popolo a Matteotti”; per questo il giornale non uscì per giorni e Mussolini impose il licenziamento di Pestelli; Giovanni Agnelli senior, il fondatore, lo trasferì in Fiat affidandogli l’ufficio stampa che creò lo slogan Cielo, terra, mare).
L’intervista faccia a faccia
Chiusi Pansa e il capo in un ufficio che avevo fatto sgomberare dagli occupanti e proibii a tutti di mettere il naso dentro se non per portare, su richiesta, acqua e caffè.
Pansa, grande narratore, descrive il suo intervistato.
“Con vent’anni di “Feroce” sulle spalle e uno stipendio di 600 mila lire al mese. Lui si presentò così: «In Fiat ho imparato tutto e la Fiat è stata la mia prima famiglia. Oggi per me non è più niente». Gli domandai perché.
“E il piccolo capo cominciò a raccontare, svelandomi un inferno che mi era sconosciuto: «Oggi sto in fabbrica dalle nove alle undici ore al giorno. E ogni giorno mi domando: a fare che cosa?
La violenza in fabbrica
“Lei avrà sentito parlare di programmi produttivi e di qualità della produzione. Nell’ambito della mia squadra dovrei occuparmi di questo. Arrivo all’inizio del mio turno, conto gli operai che lavorano con me. So che per fare un certo prodotto, occorrono tot persone. So che per essere venduto, il prodotto deve essere affidabile, avere una certa qualità. So che fare l’ interesse dell’azienda che mi paga non è una mia pretesa: è una necessità.
“In un’ altra epoca avrei detto: è il mio dovere. Questo ho fatto in vent’anni di lavoro. Adesso non lo faccio più». “E’ colpa degli operai?” gli domandai. Lui rispose così: «Prendiamo cento operai di Mirafiori. Trenta non vogliono saperne né del sindacato né di niente, faticano e basta. Altri trenta vogliono una politica sindacale democratica e giusta. Venticinque sono in balia del primo vento che tira e non sanno da che parte stare. Su questi premono gli ultimi quindici che sono estremisti e cercano ogni occasione per rompere i coglioni, per non lavorare e per non far lavorare».
Una minoranza violenta
“Quindici su cento sono pochi” osservai. Il piccolo capo replicò: «Sì, ma bastano per mandare tutto all’aria se gli altri non reagiscono. Questa minoranza fa quello che vuole. Il loro nemico è il primo capo che hanno sottomano, il caposquadra, uno come me, neanche fossi la controfigura di Agnelli. Tu insisti per mandare avanti il lavoro, per ottenere la quantità e la qualità necessarie. Loro, specie i più giovani, gli ultimi assunti, ti martellano tutti i minuti.
“Capo, non rompere o ti facciamo sciopero. Capo, sei un bastardo, guarda che sappiamo dove stai e ti prendiamo fuori di qui. Capo, sei un fascista e ti faremo camminare in carrozzella. Capo, che belle gambette hai, ci tieni a conservarle?».
«In certi momenti, dalle parole si passa alla caccia al capo. Ecco i cortei interni alla fabbrica. I capi catturati e trascinati qua e là con la bandiera rossa in mano. “Devi nasconderti, per non fare questa fine. La caccia continua anche all’esterno della Fiat. Con le telefonate mafiose a casa. Le gomme della tua auto tagliate.
Agguati e azzoppamenti
Gli agguati con la rivoltelle, gli azzoppamenti, come se fossimo dei vitelli e non degli uomini. Infine i delitti, i dirigenti ammazzati, ultimo, per ora, l’ ingegner Ghiglieno». «Così, mese dopo mese, la mia vita è cambiata. E anch’io sono cambiato: ormai sono un prigioniero di
Mirafiori. Ogni giorno che vado in fabbrica mi sembra di entrare in una galera. Senza speranza di uscirne.
“Non ci crede? Venga in fabbrica. Se vedo un operaio che prende a calci un pezzo, sono in grado di fare una cosa sola: aspettare un po’ e poi raccoglierlo io. E se mi accorgo che uno il pezzo se lo ruba via? Mi giro dall’altra parte per non vedere.
“La denuncia? Ma in che mondo vive lei? Possiamo solo ingoiare. Questa sta diventando una fabbrica di merda”.
Leggere quell’articolo fu per molti uno choc. Pochi, a sinistra, fuori dal mondo operaio, avevano mai visto una fabbrica
se non nei film della Wertmuller.
Poco tempo prima avevo assistito a una riunione di centinaia di capi radunati dal grande e mai riconosciuto genio di Vittorio Ghidella e non avevo creduto alle mie orecchie.
Una intervista traumatica
L’impatto di quella intervista sulla opinione pubblica fu traumatico e contribuì al consenso per la Fiat.
Carlo Callieri, artefice di quel ribaltamento sotto la regia mai riconosciuta di Umberto Agnelli, ha incluso una copia di quel vecchio ritaglio in una cartellina celebrativa di quei giorni, riunendo in una cena nella reggia di Venaria, a Torino, un manipolo di suoi collaboratori di quei giorni.
Solo i vecchi capi del PCI torinese (Minucci) erano consapevoli dello stato delle fabbriche. A Roma vivevano in un altro mondo. Quando Umberto Agnelli informò il capo del Governo Cossiga, il futuro Presidente quasi svenne al telefono.
Furono giorni decisivi.
Fu l’inizio della fine del caos, non solo alla Fiat ma un po’ in tutto il Paese.
Indimenticabili sono hostess e steward dell’Alitalia che insultavano impuniti i passeggeri.
Federico Fellini tradusse il disagio della grande maggioranza degli italiani in un breve ma emblematico film, “Prova d’orchestra”, uscito proprio in quei mesi caldi.
Al Nord dilagava il terrorismo, nelle fabbriche regnava il caos.
Alla fine i vertici della Fiat si mossero. Da poche settimane era stato ucciso da un commando dí Prima Linea un alto dirigente, Carlo Ghiglieno.
L’emozione fu grande: ricordo la tensione intorno al tavolo dove erano schierati i più importanti manager del settore auto. Umberto Agnelli era livido per l’emozione.
Il 9 ottobre, 61 lettere di licenziamento furono consegnate ad altrettanti operai di Mirafiori accusati di comportamenti non esattamente consoni. Fu l’inizio di una svolta che portò l’anno dopo all’occupazione di Mirafiori e alla marcia dei 40 mila.
Berlinguer e gli operai

Fu anche un momento di difficoltà del Pci. Come documenta il sito Mirafiori accordi e lotte nella foto riprodotta sopra, definita “foto del topico momento (ottobre dell’80) in cui Liberato Norcia operaio e Delegato della Lastroferratura della Carrozzeria (con il microfono in mano) fa la famosa domanda: “nel caso in cui i lavoratori della Mirafiori occupassero la fabbrica, che farebbe il PCI?” riposta di Berlinguer: “nel caso che le strutture del sindacato unitario decidessero
Era la fine di un decennio di lotte sindacali iniziate nel 1969 con l’autunno caldo. In quella cultura si è formato l’attuale leader della Cgil Maurizio Landini. Un libro del 1981 di Giorgio Ghezzi, “Processo al Sindacato”, ripercorre da sinistra quei giorni.
Fra le mie vecchie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto in orizzontale intitolato “Scaletta intervento finale Dr. Romiti, Marentino, 4, 5 novembre 1983”. Era il manifesto fondante di nuova nuova era.
Ricordo che un mattino dell’inverno 1980 incrociai in via Roma, a Torino, la macchina di Romiti con relativa scorta. Partiva sgommando, quasi esternazione automobilistica di un accentuato senso di ritrovato potere. Telefonai a Romiti per suggerirgli di non spingere troppo l’acceleratore del trionfo. Mi diede ragione ma solo a parole.
In fondo Tavares è l’ultimo di una dinastia di cui fa parte a pieno titolo Sergio Marchionne, tanto osannato perché salvo la Fiat ma mai abbastanza criticato per avere posto le premesse della crisi finale.
Il grande artefice della ripresa della Fiat, su mandato di Umberto Agnelli, fu Vittorio Ghidella, un uomo di destra che ragionava con la testa di un operaio e condivideva i gusti del ceto medio italiano. Finí estromesso in una suicida quanto puerile guerra di potere con Romiti. Fu una delle più grandi colpe dell’Avvocato Agnelli non averlo impedito.
Dettagli emergenti dai ricordi
Due dettagli emergono dai miei ricordi.
La gestione delle informazioni fu un mio piccolo capolavoro che portò il Corriere della Sera, giornale non molto simpatetico con la Fiat, a titolare in prima pagina: Licenziati 61 accusati di terrorismo.
Due giornalisti della Rai di Torino forniscono ai capi sindacali torinesi le “prove” del reato di attività antisindacale dell’Ufficio Stampa della Fiat che all’epoca reggevo. Non ho mai capito perché ma vennero incriminati il mio capo Luca Montezemolo e il mio vice, Alberto Nicolello, ex giornalista Rai.
Furono assolti e questo da un pretore non certo amico.
Nel 1980, nei giorni successi alla cassa integrazione per 14 mila operai, preceduti da un’estate di violenze e prevaricazioni, ci fu una conferenza stampa di Cesare Annibaldi, capo delle relazioni industriali del Gruppo. Io ero al tavolo vicino a lui. In platea un gruppo di giornalisti torinesi. Uno di loro chiede: “Il sindaco cosa dice?”. Io rispondo con una frase oltraggiosa ma veritiera. Il giorno dopo me la leggo sui giornali ma senza attribuzione.
Passarono mesi e alla fine il sindaco scoprì l’autore.
Un giorno di fine luglio lo incrocio mentre esce dall’ufficio di Umberto Agnelli. Dentro c’era anche Gianni Agnelli, l’Avvocato.
Umberto ride e mi dice: l’ha fatta grossa, l’Avvocato sghignazza: “Ho saputo che va in vacanza nelle Filippine di Marcos, la si che le insegnano le pubbliche relazioni”.
Un Romiti o un De Benedetti mi avrebbe licenziato. Ma credo che i due Agnelli, come Carlo Caracciolo, erano di una specie ormai estinta.