The dark side del Made in Italy. Sud e lavoro nero, la denuncia del New York Times The dark side del Made in Italy. Sud e lavoro nero, la denuncia del New York Times

The dark side del Made in Italy. Sud e lavoro nero, la denuncia del New York Times

The dark side del Made in Italy. Sud e lavoro nero, la denuncia del New York Times
The dark side del Made in Italy. Sud e lavoro nero, la denuncia del New York Times

ROMA – Un attacco vergognoso e strumentale”: così il presidente della Camera della moda Carlo Capasa definisce l’articolo del New York Times uscito oggi che parla delle ombre dell’economia italiana e della moda in particolare, per la quale – secondo il quotidiano americano – sono in molti a lavorare da casa, sottopagati e senza contratto In nero.

Nell’inchiesta realizzata in Puglia, intitolata ‘Inside Italy’s Shadow Economy’ si racconta, con testimonianze anche anonime, il lavoro di migliaia di donne che ricevono dal laboratorio locale un euro per ogni metro di stoffa cucita o ricamano paillettes per 1.50-2 euro l’ora. Di questa manodopera si servirebbero grandi marchi. In particolare, si fanno i nomi di brand come Max Mara (che oggi ha aperto la seconda giornata di Milano Moda Donna) e di Fendi (altro marchio in passerella oggi). “Hanno attaccato questi marchi in maniera indegna – dice Capasa – per questo prepareremo una nota congiunta insieme agli avvocati”.

Intanto però la miccia stata accesa, difficile negare l’esistenza al sud di un’enorme area grigia di mercato del lavoro parallelo e illegale, alimentata da una carenza cronica di opportunità di impiego, dal fallimento di processi formativi all’altezza dei tempi. A proposito di disoccupazione, ieri Eurostat ha diffuso i dati sui cosiddetti “neet”, i giovani fra i 18 e i 24 anni che non lavorano né studiano né stanno cercando lavoro: in Sicilia si sfiora il 40%, Campania, Puglia e Calabria sono poco sotto questa soglia. 40%, uno sproposito se confrontato con il 14,3% della media dell’Unione europea.

Il dato del sud suggerisce che in quel 40% ci siano giovani impegnati in lavori di bassa qualità che alimentano la falange di “invisibili” con stipendi da fame (quelli citati dal New York Times) senza contratto, assicurazione, previdenza. Lo stesso giornale è costretto a citare la proposta di reddito di cittadinanza con i quali i 5 Stelle hanno fatto man bassa di consensi al sud.

Ma accanto al sussidio, 780 euro mensili, nulla è stato pensato – sottolinea il New York Times – per introdurre un salario minimo anche in Italia. E’ chiaro che le due cose, reddito di cittadinanza e salario minimo, dovrebbero andare di pari passo: chi accetterebbe un lavoro sapendo che stando a casa guadagnerebbe come o di più? L’Italia, come i paesi scandinavi, non ce l’ha perché si affida alla contrattazione nazionale e dispone di una forte e radicata rappresentanza sindacale.

Funzionerebbe anche in Italia se non fosse che degli 868 contratti nazionali due terzi sono considerati “pirata” (fonte Sole 24 Ore), “cioè stipulati da organizzazioni non rappresentative con livelli retributivi largamente inferiori a quelli dei settori di riferimento”. Nella scorsa legislatura una proposta Pd a firma Nannicini e abbracciata da Renzi immaginava un salario minimo a 9 euro, anche i 5 Stelle hanno ragionato in questo senso ma concretamente l’istanza è sparita dal contratto di governo con la Lega.

 

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