Milos Forman: “Non potevo tornare, per questo ebbi successo”. 33 anni dopo: fu per me una ispirazione

Milos Forman: "Non potevo tornare, per questo ebbi successo". 33 anni dopo: fu per me una ispirazione
Milos Forman: “Non potevo tornare, per questo ebbi successo”. 33 anni dopo: fu per me una ispirazione

Milos Forman è morto e rileggo la sua intervista di 33 anni fa con Lietta Tornabuoni sulla Stampa. Fu per me un punto di riferimento per la mia vita.

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Le parole che ho quasi imparato a memoria sono queste:

“Quando sai di non poter tornare nel tuo Paese, ti adatti. I registi che prima della seconda guerra mondiale emigrarono a Hollywood per fuggire dal nazismo, come Lubitsch, non avevano via di ritorno e si integrarono benissimo. I registi europei che andarono a Hollywood dopo la guerra combinarono poco. Se sai di poter tornare, se hai quel luogo caldo e noto che ti chiama, non hai la forza di superare il dolore dello sradicamento, dell’adattamento. Sedici anni fa pensavo di non poter mai più tornare indietro: e ce l’ho fatta”.

Di momenti brutti Forman ne aveva avuti a New York, “all’inizio dei Settanta: una regia teatrale aveva fatto fiasco, i progetti di film restavano progetti, la vita americana lo feriva, non riusciva a imparare la lingua. Stava chiuso dentro una stanza del Chelsea Hotel al Village, beveva, prendeva valium, affondava in un continuo sonno greve, andava in pezzi. La proposta e poi il successo di Qualcuno volò sul nido del cuculo lo salvarono”.

L’intervista di Jan Tomas Forman, in arte Milos Forman, con Lietta Tornabuoni uscì il 15 febbraio 1985. La Tornabuoni era una giornalista del genere che forse non ce se sono più. La lingua italiana per lei non era una variabile indipendente. Quando usciva un suo articolo, riscontrava sull’originale non solo le esatte parole, ma i punti e le virgole.

Stava per uscire in Italia quel delizioso film, Amadeus, la storia dell’invidia di un musicista italiano alla corte di Vienna, Antonio Salieri, nei confronti di Mozart, per cui Forman ebbe l’Oscar come migliore regista.

L’articolo l’ho conservato nella sua versione originale su carta per un po’ di tempo, poi in qualche trasloco l’ho perso. L’ho recuperato, un paio di anni fa, raccogliendo materiale per delle mie Momorie d’oltretomba che probabilmente mi accompagneranno nell’aldilà, in quella miniera d’oro che è l’archivio on line della Stampa, che conserva tutte le pagine e gli articoli del giornale dal primo numero, nel 1867.

Io mi ero trasferito a Roma da Torino nove mesi prima ed ero amaramente pentito. Avevo 40 anni, avevo lasciato un lavoro nel Gruppo Fiat, alla Stampa di Torino, come amministratore delegato, per la stessa qualifica all’Espresso, che all’epoca era il settimanale, mezza proprietà di Repubblica che vendeva un po’ più di adesso ma dove nessuno toccava palla se non Scalfari e Caracciolo, e un po’ di giornali locali. Avevo scommesso la mia vita sul suo potenziale, ma perché i fatti mi dessero ragione dovevano passare una decina d’anni e tanto fiele.

A parte Caracciolo e Scalfari, l’Espresso era dominato da personaggi di grande valore, oggi dimenticati ma che meriterebbero dei monumenti nella galleria dei grandi dell’editoria in Italia. Personaggi geniali quanto dominanti e anche prepotenti.

Carlo De Benedetti già incombeva, era il secondo azionista ma non interveniva nella gestione.

Carlo Caracciolo è stato il più grande editore di quotidiani del secolo scorso, l’unico che credette nei giornali non come fonte di potere ma di profitti e guidò una serie di quotidiani dalla non esistenza (Repubblica, Provincia Pavese) o dal fallimento (Tirreno) o dal limbo (Nuova Sardegna, Mattino di Padova). Una sua forza è stata sempre quella di aggirare il conflitti, forse ereditata dal padre diplomatico. Nelle riunioni di editori, quando c’era da dire delle cose di un certo vigore, cercavi Caracciolo e lui era appena uscito.

Sapeva che l’arrivo di un nuovo amministratore, di una generazione più giovane rispetto ai Fondatori, sarebbe stato dirompente. Così evitò di dirlo e li mise davanti al fatto compiuto. Così quando arrivai in Via Po 12, a Roma, per me una specie di Tempio di Gerusalemme del giornalismo dalle mie letture adolescenziali, scoprii che l’ufficio che Caracciolo mi aveva annunciato stavano preparandomi non esisteva. Mi offrirono una specie di loculo, in soffitta, 4 metri per 2,50, dove avevano parcheggiato, fino a pochi mesi prima, il vice direttore Giuseppe Turani, per neutralizzarlo. “È stato l’ufficio di Peppino, siete tanto amici…”.

Erano tempi diversi, va riconosciuto. Nella palazzina al 12 di via Po l’Espresso si era allargato, nei suoi primi 30 anni, da mezzo piano a 2 piani e la mansarda (in mezzo c’era un laboratorio di pellicceria). L’ufficio di Caracciolo era in mansarda e ogni volta che lui, alto più di un metro e 80, si alzava dalla sedia (cosa che faceva spesso perché da persona educata si alzava a salutare con rispetto ogni visitatore) temevi sempre che prendesse una zuccata nel soffitto spiovente.

Anche Luigi Zanda, segretario generale, aveva un loculo un po’ meglio del mio. Anche a lui era stato riservato il trattamento nuovi arrivi.

Per mesi, in quella soffitta che prendeva luce da un lucernario senza affaccio, ho rimpianto il mio bell’ufficio in via Marenco a Torino, dalla cui finestra vedevi il Po e il verde della collina.

Senza il sostegno, molto felpato, di Caracciolo, e soprattutto di Giovanni Valentini (che patì la sua parte di tormenti come direttore dell’Espresso, ma che i personaggi di quel piccolo club conosceva bene) e di Scalfari, forse sarei fallito.

Ma come Milos Forman non potevo tornare indietro, a Torino, e dire a Cesare Romiti: “Dottore, mi sono pentito, mi riprenda”.

Il figliol prodigo funziona solo nel Vangelo. Credo che Romiti mi abbia sempre voluto bene, me lo ha dimostrato ancora di recente quando ci siamo trovati vicini di tavolo al Bolognese. Ma il mio abbandono, per lui un tradimento, non lo ha mai accettato. E le dittature sono tutte uguali. Credo che pochi superino Romiti in sentimenti anticomunisti. Ma non avrebbe fatto nessuna differenza fra Torino e Praga (e in quegli anni in cui si respirava ancora l’odore del piombo, fra Torino, guidata da un sindaco comunista e Praga non credo ci fosse molta differenza).

Ricordo bene il mattino in cui l’intervista fu pubblicata. Abitavo, solo, in una bella casa davanti a Castel Sant’Angelo, e quel mattino avevo appena rischiato di morire soffocato sotto la doccia. Avevo il raffreddore, fumavo 60 Nazionali semplici al giorno e un colpo di tosse combinato con il naso bloccato stavano per risolvere tutti i miei problemi.

Prima di andare all’Espresso, lessi i giornali, la Stampa era ancora il mio amore, dove avevo sognato di lavorare fin da quando, liceale, sfogliavo estasiato le 14 pagine del giornale diretto da Giulio De Benedetti (no connection), il secondo più grande direttore del dopoguerra, dopo suo genero Eugenio.

Zanda e Turani (nel frattempo passato a Repubblica) un giorno mi presero da parte e mi dissero. “Qui non ce la farai mai, mandali tutti al diavolo e torna a Torino”.

Lo avrei fatto tanto volentieri, ma sapevo che non potevo.

Fu così che lessi l’intervista e devo dire che la mia prospettiva cambiò. Da allora, tante volte ripensare a Milos Forman mi ha dato la forza per tenere duro e tirare avanti. Certo, fra me, esule da Torino e Forman, profugo da un regime abbastanza spietatello, c’era qualche differenza, a parte quella intrinseca della sua genialità e della mia modestia. Ma i fatti degli uomini illustri, come insegnava Ugo Foscolo, sono celebrati per accendere a egregie cose gli animi più modesti.

Per me era un problema di carriera, per Forman di carcere e chissà…

“Provavo nostalgia quando pensavo di non poter più tornare nel mio Paese”.

Dell’educazione comunista, dell’istruzione ricevuta in un collegio statale per orfani di guerra e nei campeggi dei “Pionieri”, gli è rimasto nulla? chiese Tornabuoni

“Sì, naturalmente: son cose che ti porti dietro per forza, ma più dal punto di vista filosofico che da quello pratico-politico, lo non sono mai stato membro del partito comunista né di alcun altro partito: sulle cose voglio esprimere le idee mie, giuste o sbagliate, non quelle di altri. In Cecoslovacchia o in America, c’è sempre la stessa contraddizione tra principi e azione pragmatica. Teoricamente, la democrazia liberale è ottima come è ottimo il marxismo: poi nella pratica ci sono cose che non accetto, che mi rendono triste”.

 

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