ROMA – “Ministra”, “sindaca”, prefetta”: se il rispetto del genere sfida il senso del ridicolo. La “ministra” Fedeli, la “sindaca” Raggi, la “prefetta” di Genova, l'”assessora” al Commercio… E sia, anche l’Accademia della Crusca ha stabilito che l’uso grammaticalmente corretto è stato aggiornato in direzione della parità di genere per cui se si dice infermiera non si vede perché non si debba dire ingegnera. Certo il correttore automatico mostra i segni di una sincope improvvisa, ma come intima un giorno sì e l’altro pure la presidente della Camera Boldrini, “il rispetto passa anche dalle restituzione del genere”.
A meno che non ti chiami Giorgio Napolitano che in faccia le ha detto che è “abominevole” l’uso della parola sindaca e “orribile” quello di ministra. Certo, anche “prefetta” ha le sue diaboliche attrattive, specie a Genova dove la si può facilmente scambiare con la “perfetta”, storica calzoleria artigianale.
In genere nelle cose di linguistica ci insegnano che a dominare incontrastato su ogni possibile controversia è l’uso. Per dire alla fine dell’Ottocento, quando l’accesso alle professioni era a senso unico, avessimo nominato la “prefetta”, avremmo subito pensato a qualche avventura galante con protagonista la moglie del prefetto.
Come la “marescialla” del Cavaliere della Rosa (l’opera di Richard Strauss da Hofmanstal) poi citata da Arbasino (“Marescialle e libertini”). Come la “presidentessa” della famosa e pornografica lettera di Theophile Gautier che tutta la Parigi salottiera fingeva di non conoscere. Si corrono dei rischi a sfidare il senso del ridicolo, però l’ossessione politically correct può anche sortire effetti benefici: non leggeremo più titoli strepitosi come “Il sindaco di Cosenza: aspetto un figlio! Il segretario Ds: Il padre sono io”.