Nel Pd che non sa “dimenticare Berlinguer”, la sfida Renzi vs Bersani

renzi bersani
Bersani e Renzi: sorrisi, strette di mano e veleni

Il Pd è in pieno travaglio e non è solo il duello tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi a tormentare il partito. Il male è più profondo, è nelle radici stesse del partito, che nasce dalla fusione tra Margherita e Ds, ultima mutazione del Pci ma che da questo ultimo partito trae la maggior parte della sua classe dirigente.

Il doppio tormento del Pd è oggetto di due articoli, uno di Claudio Tito su Repubblica e Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera, il primo centrato sul “fattore umano”, che “rischia di portare il Pd alla autodistruzione”, il secondo sull’anima doppia di un “partito bifronte”, che non sa “dimenticare Enrico Berlinguer“.

Per Tito, lo scontro fra Bersani e Renzi avviene sullo sfondo di una “corsa” in cui i veri nemici esterni sono due: Berlusconi e (questo vale per Renzi ma non per Bersani) Beppe Grillo. In questo scontro Tito vede

“un rischio che Bersani e Renzi sembrano sottovalutare. Ossia la distruzione dello stesso centrosinistra:

“Bersani e Renzi non si parlano, sempre più pronti a guardarsi come nemici. Un errore. Nemmeno la Dc delle molteplici correnti ha mai anteposto lo scontro personale alle sorti del partito”.

“E anche la fiche giocata in questi giorni da Fabrizio Barca sembra in primo luogo il modo, per il gruppo che più si sente legato alle radici dell’ex Pci, di fermare l’avanzare del sindaco di Firenze”.

Renzi è già scattato:

“Se volete Barca, se pensate che lui possa battere Berlusconi io mi faccio da parte in buon ordine. Ma mi sono stancato di essere trattato come un appestato”.

Nel Partito democratico, scrive Tito,

“sta crescendo il numero di persone che accusa Bersani di voler agevolare la nomina di un capo dello Stato che possa condividere le sue aspirazioni governative. Il dubbio di molti di loro si concentra su un sospetto ben preciso: la volontà di ricevere l’incarico pieno di formare l’esecutivo anche a rischio di non conquistare la fiducia in Parlamento.

“Secondo una buona parte del Pd, Il segretario, in sostanza, farebbe valere il suo ruolo di presidente del Consiglio dimissionario per condurre la nuova campagna elettorale. E cogliere forse l’ultima occasione – per una questione generazionale – di portare un ex comunista alla guida di un governo.

“Le mosse di Renzi si muovono in senso diametralmente opposto: vuole accelerare per andare a votare il prima possibile” perché è “sicuro di potere essere il nuovo sfidante di Silvio Berlusconi. Convinto di poter sconfiggere l’avversario storico del centrosinistra nella fase declinante della sua parabola politica e di poter approfittare della oggettiva contrazione dei consensi a favore del Movimento 5Stelle.

“Anche perché i grillini hanno mostrato limiti consistenti nel personale politico approdato in Parlamento e nella capacità di elaborare una linea politicanon solo produttiva per il Paese ma semplicemente condivisa dagli oltre 150 deputati e senatori eletti.

“Per questo, Renzi è pronto anche a spaccare il suo partito pur di ritrovarsi al Quirinale un uomo che – a suo dire – non si faccia condizionare dall’attuale vertice dei democratici. Un “garante” non solo delle Istituzioni e del Paese, ma anche della contesa in corso nel Pd”.

Sotto il titolo: “Il Pd bifronte non sa decidere (e dimenticare Berlinguer)”, Giovanni Belardelli descrive

“l’impressione che si ha del Pd”, quella “di un partito bifronte, disponibile (forse) a un’apertura a Berlusconi ma contemporaneamente tentato (forse) dall’approvarne l’ineleggibilità sulla base di una legge del 1957. Da ciò anche le oscillazioni di questi giorni sulle elezioni per il Quirinale, con la compresenza nel Pd di ipotesi opposte: il candidato condiviso e la scelta di rottura appoggiata dai cinquestelle”.

L’analisi è quasi complementare con quella di Tito, perché punta, anziché sul “dato caratteriale” di Bersani, sul problema politico e sulla

“impasse politica in cui si trova da tempo Partito democratico, incapace di scegliere tra due strade diverse e due letture opposte dei problemi del Paese: 

1. “gran parte dei problemi dell’Italia [è dovuta] all’anomalia rappresentata da Berlusconi, scomparso il quale tutto o quasi tornerebbe a posto. La linea «mai un governo con il Pdl» rappresenta l’ovvia conseguenza di questa posizione.

2. “ciò che blocca il Paese (dalla scarsa competitività delle imprese al peso delle corporazioni d’ogni genere, dalla diffusione della corruzione alla accentuata disoccupazione giovanile) non può essere ridotto alle malefatte del «caimano», ha radici più antiche della discesa in campo di Berlusconi e responsabilità non univocamente attribuibili al solo centrodestra”.

Così Bersani

“in tutta questa vicenda appare, più che la figura caricaturale che qualcuno dipinge (il «cocciuto» Bersani) un personaggio a suo modo tragico. Nel senso che, in lui e attraverso di lui, si manifesta una incapacità a scegliere tra vie opposte che viene da lontano e risale fino a Berlinguer, il quale lasciò in eredità al suo partito quel particolare radicalismo fondato sull’idea di essere la parte sana del Paese (il tanto citato «complesso dei migliori», secondo l’efficace formula di Luca Ricolfi) che ha alimentato e alimenta ancora tanta parte della proposta pd di oggi.

“In un partito incapace, nella sua componente principale, di «dimenticare Berlinguer», l’eredità berlingueriana ha rappresentato la fonte in cui trovare la conferma di una opposizione radicale fondata su «una cortina di ferro antropologica tra “popolo di destra” e “popolo di sinistra”».

“È da tutto questo che deriva l’impressione attuale di un partito bifronte, disponibile (forse) a un’apertura a Berlusconi ma contemporaneamente tentato (forse) dall’approvarne l’ineleggibilità sulla base di una legge del 1957. Da ciò anche le oscillazioni di questi giorni sulle elezioni per il Quirinale, con la compresenza nel Pd di ipotesi opposte: il candidato condiviso e la scelta di rottura appoggiata dai Cinquestelle”.

Conclude Belardelli con un augurio, che

“almeno per quanto riguarda la presidenza della Repubblica, il pendolo oscilli verso” la scelta di un candidato condiviso, e non verso la la scelta di rottura appoggiata dai Cinquestelle”, per “non aggravare ulteriormente le fratture dell’Italia”.

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