Oggi ho compiuto 80 anni. Un traguardo insperato, sognato e temuto. La vecchiaia si fa sentire ma, come ha scritto Trevanian, fuori c’è la neve, dentro c’è il fuoco.
Per anni ho fatto la gara con Massimo Donelli, nato anche lui a Genova lo stesso giorno 9 anni dopo a chi beccava per primo l’altro a mezzanotte per i reciproci auguri, ora lui è invecchiato e sfugge. Conosco altri nati lo stesso giorno. Maurizio Martinetti spezzino, Marco Paris, Fabio Toni. Diversi destini, conta il giorno ma anche il mese, l’anno, l’ora e tanti incroci astrali.
Spero che Gian Marco e Margherita lo leggano e con lui qualche altro giovane. Si renderanno conto che nel mondo e nell’Italia di oggi leggendo, studiando, lavorando sodo e con una buona dose di favore degli astri ce la possono fare.
Sono diviso fra due diversi sentimenti. La soddisfazione di esserci arrivato, il fastidio della vecchiaia che ho sempre provato fin da giovane e che con gli anni non si è attenuato.
Sono stato fortunato, non solo come persona favorita dal destino, ma anche come testimone della fantastica trasformazione dell’Italia da Paese di poveracci a scrigno di ricchezza e prosperità, da terra dí emigrati a calamita per immigrati.
Chi è nato negli ultimi decenni non se ne rende conto, i più anziani non hanno memoria, ma è bene ricordare.
L’Italia non era e non è, e non lo era da 1.500 anni, l’erede di Roma imperiale. Per tutto questo tempo l’Italia è stata terra di conquista per tedeschi, francesi e spagnoli. Faceva eccezione Venezia, il cui territorio però arrivava appena fino a Bergamo. Genova era marginale, visse un secolo d’oro ma al servizio di Carlo V, il grande cattolico che mise a sacco Roma.
La mancanza di quello Stato unitario che fu la base delle fortune di Francia, Spagna e Inghilterra, unita alla scarsità di materie prime e l’infelice struttura del territorio che differenzia dalla Germania, furono cause decisive.
La grande arte del Rinascimento fiorì grazie al denaro dei fedeli tedeschi che con Martin Lutero si stufarono. Al resto provvide la lunga recessione dei secoli successivi.
Oggi in Italia meglio che mai
Ci fu un periodo di boom fra il mille e il ‘500, concentrato a nord est di Firenze, finito per la concorrenza dí inglesi e fiamminghi e soffocato da mancanza di innovazione e alto costo del lavoro.
Per il resto del tempo l’Italia è stata terra di conquista per goti e longobardi (che hanno costituito i vari strati della classe dominante italiana nel millennio successivo, altro che discendenza romana) e poi per tedeschi, spagnoli, francesi (peraltro oggi la spartizione della economia italiana tra francesi e anglo-americani ne è la prosecuzione non cruenta ma non meno spietata.
L’Italia è Stato unitario dal 1860. Nei suoi primi 80 anni l’Italia ha compiuto uno sforzo titanico per uscire dal medioevo, ha subito una guerra da 600 mila morti per un lembo di terra dove ci guardavano storto, il fasciamo, un’altra guerra da mezzo milione di morte che ha devastato il nord, le sue città e le sue fabbriche, si è liberata del re e dei nobili diventando repubblica.
Per Giovanni Pascoli l’Italia era la “grande proletaria “, per Mussolini l’Italia era “proletaria e fascista”. Ancora nel 1957 Gino Luzzatto scriveva che l’agricoltura continuava a essere l’attività prevalente nel nostro Paese. Nel 1955 il mio maestro di quarta elementare esclamava con orgoglio che più della metà degli italiani erano contadini.
Oggi l’Italia è una delle prime potenze economiche e industriali del mondo.
Da terra di emigranti a calamita di immigrati
Da terra di emigrazione è diventata meta di immigrazione.
Ricordo sempre che l’inno nazionale genovese, Ma se ghe penso (da Mario Cappello a Lauzi a Mina), è il lamento di un emigrante che vuole tornare in patria. Genova la Superba, vertice del triangolo industriale, culla della grande industria italiana mandava in America, Nord e Sud, i figli poveri delle sue valli e anche delle Riviere.
Ricordo la miseria degli anni del dopoguerra, gli inverni aggravati dal clima molto più freddo di oggi, un po’ di carne solo la domenica, un piatto di minestra ed è subito pera verseggiava Gino Patroni. Non c’era telefono, non c’era frigorifero, d’estate il ghiaccio si comprava in enormi lingotti dal carbonaio. Quando arrivò il telefono, per chiamare in un’altra città dovevi passare per un centralino che dopo un po’ di minuti ti interrompeva chiedendo “raddoppia?”.
Il festival di Sanremo lo sentivamo alla radio, la tv arrivò qualche anno dopo.
Purtroppo, grazie alla insipienza di Eisenhower (“Persona molto attraente ma con un cervello molto limitato dal punto di v insta strategico”, lo ha definito l’inglese Alan Brooke), l’Italia è stata terra di Guerra fredda. A Yalta Roosevelt e Stalin ci avevano garantito un futuro americano. Chi ancora oggi depreca la nostra dipendenza dall’impero americano semplicemente delira e non è mai stato in un paese dell’orbita sovietica prima del 1989.
Ma la fine degli anni ‘60 segnò una specie di liberi tutti e un nuovo espansionismo sovietico, mal contrastato dagli americani in Polonia, Ungheria, Siria, Afghanistan.
Il nuovo benessere, il boom, e il trauma della grande migrazione interna da est e da sud, unite alla periodica spinta rivoluzionaria che in Europa affiora da secoli ogni po’ di anni, generarono una crisi di adattamento che resuscitò le spinte rivoluzionarie messe a tacere da Togliatti nel 1945. La Resistenza tradita fu tra le spinte che provocarono la nascita del terrorismo rosso degli anni ‘70. C’è chi ha visto dietro il terrorismo, rosso e nero, il ditino dei servizi segreti americani e sovietici.
Furono anni difficili, l’odio sociale lo respiravi nella nebbia di Milano e Torino, nella macaia di Genova, la rabbia era percepibile anche nella voce del radiotaxi.
Si parlava di golpe. Conoscevo gente che non dormiva più a casa, talvolta ottima scusa per passare una serata con l’amante.
Auto blindata e pistola
Quando lavoravo alla Fiat, trovarono il mio nome in un covo, mi diedero pistola e auto blindata.
La borghesia era impazzita, dominava il mito di Mao. Ricordo una ricca signora che dopo aver comprato casa a Londra con i soldi del marito miliardario (in lire) si precipitò a sfilare in corteo col pugno chiuso ben alzato.
Assistetti nel 1976 alla proiezione del film Novecento di Bernardo Bertolucci al cinema Adriano a Roma, in piazza Cavour. I borghesi romani sfilavano all’uscita emozionati e partecipi dopo avere visto il personaggio impersonato da Donald Sutherland inforcato dai contadini in rivolta in una scena finale.
Abbiamo superato tutto questo, ora ci spaventiamo per qualche scippo e ci disperiamo per omicidi e accoltellamenti che trovano in Internet cassa di risonanza ma non teniamo conto che qualche decina di casi su quasi 60 milioni di abitanti rappresenta un dramma che dobbiamo accettare.
La prima volta che andai a New York nel 1968 ti dicevano persino quale angolo svoltare per rischiare meno un brutto incontro con qualche drogato che ti accoltellava per 50 dollari.
L’unico italiano che. New York era più a suo agio che in Italia era l’avvocato Agnelli. A Torino Brigate Rosse, Prima Linea e altri malavitosi erano in coda per rapirlo (come poi fecero con la con suocera) e fargli la pelle.
Se leggete i giornali stranieri, vi rendete conto che siamo fortunati.
Ne abbiamo passato di tutti i colori in questi 80 anni. La retata di Mani Pulite ha spazzato via due partiti secolari, il cattolico e il socialista, la mai abbastanza deprecata esperienza dei governi tecnici ci ha messo in gravi situazioni di rischio, Berlusconi lasciamolo stare, la tempesta suscitata da Beppe Grillo ha fatto danni di cui soffriamo ancora oggi.
Ma che il più grande partito della sinistra abbia in cima alla sua lista di lotta i diritti di una serie di minoranze rappresenta la migliore prova del fatto che l’Italia ha raggiunto un livello di benessere come mai è stato, nelle centinaia di migliaia di anni dai primi insediamenti di Neandertal a oggi.
Sono nato a Genova
Alcune righe su di me.
Sono nato a Genova il 26 gennaio del 1945. La città era occupata dai tedeschi (mia madre ricordava con un brivido gli stivaletti con cui calpestavano i nostri marciapiedi).
Le case intorno a quella dove sono cresciuto e alla clinica dove sono nato erano tutte macerie. Ho trovato il conto della degenza: 2.680 lire.
Bombardavano anche quando ho visto la luce. Il prete voleva scappare, mio padre (barbiere comunista non militante e credente) lo bloccò: “Nella casa di Dio non si deve avere paura”.
All’epoca dominava la convinzione che se morivi non battezzato finivi nel Limbo.
Io ero a rischio: ero prematuro di 8 mesi con itterizia da madre di 43 anni. Mi salvarono in una cameretta di 3 metri per 1,5, dove poi dormii per 25 anni, piena di stufe e borse di acqua calda. Ci sarebbe voluta una incubatrice, ammise la levatrice quando ormai ero fuori pericolo.
Mio padre si dissanguò per comprare il latte artificiale alla borsa nera.
Figlio di genitori anziani, circondato da vecchi e cresciuto in mezzo a persone molto più grandi di me avendo iniziato a lavorare ancora al liceo, ho sempre visto la vecchiaia con timore e fastidio.
So far so good, il peggio deve ancora arrivare. Molti miei amici sono vivi, pur con acciacchi, molti ci hanno preceduto nei pascoli del Cielo, in anni giovanili e di recente.
Nella mia ascendenza, il ramo celtico della nonna paterna da speranze: lei, pur diabetica, morì a 93 anni, mia sorella a 90, mio padre a 86, mio cugino a 91, la sorella di questo cugino ne ha 94.
La componente etnica ligure paterna (basso Piemonte) e materna (genovese) non ha dato grandi prove di longevità. Vedremo.
Una vita che ha del miracoloso ancor oggi
La mia vita è stata abbastanza miracolosa. Ho deciso di fare il giornalista invece che l’ingegnere nucleare come il mio amico spirito guida del tempo quando avevo 13 anni. Quello del giornalista era un mestiere che mi affascinava e in più prometteva condizioni retributive pari a quelle di un laureato senza bisogno di laurea (che presi su insistenza dei miei mentori quando già ero giornalista professionista).
Iniziai a lavorare in seconda liceo. Niente poesie ma sport minori: calcio di periferia, pallavolo.
Fui scoperto e lanciato da Giancarlo Piombino, futuro sindaco di Genova, nei giorni della maturità e iniziai a curare pagine e rubriche la domenica, in un giornale che usciva a Genova solo il lunedì. La sede e gli arredi erano quelli di un quotidiano che usciva prima della guerra, negli anni ‘30. Ritrovai lo stesso arredamento negli uffici della Komsomolskaja Pravda a Mosca 40 anni dopo.
Da quel momento la mia vita si è dipanata come un gomitolo magico, fino a capo ufficio stampa della Fiat, amministratore delegato della Stampa e amministratore delegato del Gruppo Espresso – Repubblica negli anni di trionfo in Borsa. Alla Stampa guidai, primo in Italia, il passaggio della redazione all’uso dei computer (grazie anche al contributo di Pierangelo Coscia e la comprensione di Giorgio Fattori), a Repubblica ho introdottto il colore, lanciato il femminile e conseguito accordi sindacali che hanno ridotto di molto le prospettive di crescita dei costi industriali e redazionali.
La lista delle persone cui sono legato da gratitudine è lunga.
Ha inizio con Gianluigi Corti, che mi fece scendere dall’albero della poesia e entrare nella prateria della pallavolo e dello sport (un dolore mi affligge, non averlo satuto ripagare quando avrei potuto), Renzo e Giorgio Bidone, cui devo i primi passi e i primi insegnamenti, Giancarlo Piombino che mi lanciò nel mestiere nei giorni dell’esame di maturità, Luigi Vassallo, maestro di lavoro e impegno, Gaetano Fusaroli, Sergio Lepri, Licinio Germini, Giovanni Giovannini, Alain Elkann, che aprì per me le porte del cuore di Caracciolo, Luca Montezemolo, cui debbo il grande balzo in avanti che mi aprì le porte dell’empireo. Siamo ancora amici, con nostalgia e affetto.
Ho avuto la fortuna di lavorare con personaggi come i due fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti, come Eugenio Scalfari, un genio. A De Benedetti devo la fortuna finanziaria. A Carlo Caracciolo, alla cui dipendenza ho lavorato per un quarto di secolo, devo metà della mia vita. Da ciascuno ho imparato qualcosa fino a essere il vecchio che sono, emulo di Nestore.
Non è stato un cammino in pianura ma irto di alti e bassi, fra i rischi di una pallottola negli anni di piombo, le insidie della guerra di Segrate, le difficoltà di adattamento al nuovo ambiente romano da Genova via Londra e Torino, l’incubo di azionisti come Mondadori e CIR.
Sto lavorando per garantire un futuro oltre la mia esistenza a Blitzquotidiano, il giornale online che state leggendo. Siamo fuori da 15 anni, grazie a un manipolo di ventenni, la grafica di Remigio Guadagnini, la mano di Fedado, la tecnologia di Marco Corsar0, seguito da Luca Ferlaino.
Sono stati con me dall’inizio il compianto Sandro Acciari e Mino Fuccillo, che molto ha contribuito allo standard professionale che ci colloca ad un alto livello di indicizzazione di qualità. Hanno collaborato, gratis, Mario Lenzi, Gino Nebiolo, Maurizio De Luca, Paolo Gentiloni, Licinio Germini, Pino Nicotri, Franco Manzitti, Antonio Buttazzo, Bruno Tucci, Vincenzo Vita, Salvatore Sfrecola, Giancarlo Tartaglia e la presenza quotidiana di Caterina Galloni, il cui oroscopo, il migliore in Italia, orienta da 15 anni la nostra giornata.
Dei ragazzi della redazione, oggi quarantenni o quasi, alcuni sono volati verso luminose carriere: Alberto Francavilla, primo direttore dopo di me, Antonio Sansonetti, Emiliano Condo, Elisa D’Alto, Daniela Lauria, Maria Elena Perrero, Viola Contursi.
Sono rimasti attraverso un lungo periodo di difficoltà Alessandro Avico, direttore, Wersame Dini Casali, il primo assunto, Gianluca Pace, Filippo Limoncelli, Lorenzo Briotti, Claudia Montanari, Silvia Di Pasquale.
Non ho mai avuto molte frequentazioni, quando vivevo a Torino trovavo i torinesi troppo espansivi, cosa che ha ammortizzato gli effetti della solitudine dopo il ritiro. Vivo bene, accudito da Jorge Carranza e Filomena Ramos, con me da 30 anni. Oltre agli amici che ho già ricordato, frequento e stimo Giovanni Valentini, con il quale condivisi i mesi difficili della occupazione berlusconiana, Stefano Mignanego e Francesco Dini, unici fra i mei ex colleghi a ricordarsi ancora di me, ma nel mio destino c’è l’ obliterazione come nell’Urss e in Vaticano, Franco Siddi e Raffaele Lorusso, Sebastiano Sortino, Milvia Fiorani, Lamberto Dolci e alcuni politici: Luigi Zanda, amico da 40 anni, dai tempi del mio arrivo all’Espresso, Maurizio Gasparri, del quale ho sempre apprezzato la straightforwardness, la semplicità e chiarezza del parlare diritto e diretto, e Italo Bocchino, altra persona semplice e diretta.
Provo molta ammirazione per Paolo Gentiloni. Abbiamo lavorato insieme per un po’ ai tempi di Nuova Ecologia. Quando la chiudemmo, Gentiloni si comportò con grande correttezza. Mentre cercavo di farlo accettare da quelli dell’Espresso come inviato speciale, un giorno venne a pranzo da me annunciandomi che tentava la politica come asssistente di Francesco Rutelli al Comune di Roma. Gli dissi di pensarci bene perché mi sembrava un errore. Uno dei miei tanti giudizi e consigli sbagliati.
Stimo e ammiro Paolo Flores d’Arcais e Roberto D’Agostino, diavolo e acqua santa. Li unisce l’onestà e la passione.
La mia vita è una ulteriore testimonianza del gigantesco progresso dell’Italia con la repubblica e la appartenenza alla sfera americana. Non credo che sarebbe stato possibile un secolo prima: avrei fatto il barbiere come mio padre. Ci sono stati, nei secoli passati, casi di italiani di modestra estrazione che sono entrati a corte, prendete il caso di Casanova. Ma la regola era la negazione della mobilità sociale. Faceva eccezione l’impero ottomano, in cui il figlio di un pastore poteva diventare gran visir: ma a che prezzo?
Non sempre, ammetto, ho avuto presente Giobbe, “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò”, o Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”.
Cercherò di rimediare.