Scuola senza fondi, Azzolina vuole bidelli, Saraceno: “Competenze e attività esterne organizzate in modo non estemporaneo”

di Marco Benedetto
Pubblicato il 24 Giugno 2020 - 14:50 OLTRE 6 MESI FA
Scuola senza fondi, Lucia Azzolina (nella foto)vuole bidelli, Saraceno: "Competenze e attività esterne organizzate in modo non estemporaneo"

Scuola senza fondi, Lucia Azzolina (nella foto) vuole bidelli, Saraceno: “Competenze e attività esterne organizzate in modo non estemporaneo”

Scuola nel caos, sono 70 anni che la riformano, ma va sempre peggio. Riformatori o guastatori? In principio ci fu la riforma Gentile. Ma Gentile era fascista e per definizione non andava bene.

Andavo a scuola, negli anni ’50 e ’60, e già sentivo i professori lamentarsi dei Provveditorati, del Ministero. Nel mio liceo si aggirava un professore che dicevano si fosse laureato col mitra da partigiano sul tavolo d’esame. Probabilmente sarà diventato un buon preside, essendo capace organizzatore. Ma come professore…la sua ignoranza era proverbiale. Alla mamma aristocratica di una ragazza molto chic disse: “Cara signora, sua figlia fa la grande vitesse”. Che in francese vuol dire velocità, non vita.

Già allora la politica si stava infiltrando nelle aule. C’erano ancora i migliori professori della vecchia scuola. Rigidi, severi, rigorosi. Chi era antifascista lo era per selta e convinzione, non opportunismo. Il prof. Arrigo Finzi non aveva bisogno di molte parole. Mi insegnò a amare Dante, a apprezzare l’importanza dello studio sistematico, a discernere il bene dal male senza compromessi. 

Per evidenziare una frase su un libro, gli bastava un piccolo tratto di matita a margine. Ancora oggi, quando sottolineo un passo, cerco di imitarlo. Ma essendo figlio del dopoguerra, un tratto non mi basta e tutte le volte penso a Finzi con rimpianto.

E la mitica Anna Rebuttati? Voleva le ragazze col grembiule nero sempre in ordine, niente profumo, tutti gli occhi su di lei. Mi fece capire come superare il confine fra matematica e metafisica. Le sue spiegazioni, per chi le ascoltava, erano musica. 

A scuola arrivò la supplente

Arrivò una supplente, bella, giovane, bolognese. Non aveva polso e noi, come animali, lo sentivamo. I miei compagni mi seguivano anche se ero il più piccolo di statura e io guidai la sommossa. Mugugni, disattenzione, tutto qui, ma la supplente mi individuò strillando: “Benedetto, se non la finissi, ti mando fuori dell’ussio”.

Ci finii, fuori della porta, sull’onda di una risata generale. Alla Rebuttati non sarebbe servito. Bastava uno sguardo, un richiamo di poche sillabe.

Era la sezione C, poi veniva la D, abbastanza, poi la E, la F, specie di legione straniera di professori e anche di alunni.

La crescita dell’Italia dopo il fascismo, sull’onda del miracolo aiutato dal piano Marshall, aveva allargato la platea dei liceali. E anche degli studenti in genere.

Il livello medio degli insegnanti si abbassava. Lo sintetizzava il prof. Bonaria, coltissimo quanto incapace di tenere la disciplina, Agli esami di abilitazione all’insegnamento, ci raccontava, un futuro insegnante aveva fatto partecipare re Carlo Alberto di Savoia alla battaglia di San Quintino (10 agosto del 1557, fu Emanuele Filiberto).

Non è stato un fenomeno solo italiano. L’allargamento della base scolastica aveva comportato un degrado della scuola pubblica in tutti i Paesi occidentali. Al mantenimento del livello aveva supplito la scuola privata. Non da noi: alla scuola privata interessava e interessa l’afflusso di allievi le cui mamme esercitano influenza sempre crescente. Certo non per una maggior disciplina o rigore di studio, ma per puro mammismo.

Ci sono eccezioni, dappertutto. Ma l’esperienza diretta mi induce a queste affermazioni.

60 dopo la maturità, nella scuola di una volta

Sono passati quasi 60 anni da quando ho passato l’esame di maturità. All’epoca aveva appena preso avvio il centro-sinistra. Quanti Governi, quante coalizioni, quanti ministri si sono inseguiti. Ognuno voleva lasciare il suo segno, cambiare, per cambiare.

Via quella distinzione classista fra ginnasio-liceo da una parte, istituto tecnico per ragionieri e geometri dall’altra, dall’altra ancora le scuole di avviamento professionale per chi non avesse voluto o saputo superare l’esame di ammissione alla media.

Via le distinzioni, evviva i geometri a studiare filosofia, liberi tutti, è arrivato il ’68. Da allora, la scuola è stata riformata, vivisezionata, trasformata, democratizzata, allargata, aperta. Col risultato che tutto non è come prima, è solo peggio di prima. Una volta c’era una distinzione, dolora ma realista.

Da una parte i figli dei ricchi e i bravi, la futura classe dirigente. I ricchi andavano avanti per un fatto quasi genetico, per l’aria che respiravano in casa, per le persone che frequentavano quella casa. I poveri capaci rubavano il know how, studiavano di più e andavano avanti.

Cresce l’economia, c’è posto per poveri e donne

C’era sempre più bisogno di loro, l’economia era cresciuta tanto, c’era posto anche per le donne. 

La scuola d’élite, il liceo classico, non dava nozioni, allenava il cervello.

Gli altri ottenevano una formazione pratica, funzionale, per uno dei tanti sempre più numerosi mestieri che la società sempre più articolata proponeva.

Poi tutto si è mescolato, forse l’economia è cresciuta troppo, la domanda è stata superiore all’offerta di qualità. Il livello medio della classe dirigente è sceso, la scuola era causa e conseguenza del doppio fenomeno.

Purtroppo anche la sinistra ha partecipato all’appiattimento. Per i miei vecchi, sinistra voleva dire crescita. Erano artigiani, barbieri, tecnici di medio livello, piccoli imprenditori a livello di bottega. Studiare era la scala per il paradiso, per il benessere.

La sinistra dei figli dei ricchi non voleva e non vuole la crescita, perché loro ci sono già, lassù, per diritto ereditario. Loro vogliono l’appiattimento, vogliono tutti uguali, ma all’ingiù. Tutto ciò ha un riscontro nella cronaca di questo mezzo secolo, che ormai è storia. In questo è il fallimento del ’68 italiano.

Assistetti, come cronista dell’Ansa, a una delle prime conferenze stampa di professori contestatori. Subii, quando curavo un giornaletto studentesco, la violenza di un futuro rivoluzionario e forse terrorista per avere pubblicato un articolo che auspicava integrazione fra università e industria.

Dalla contestazione del ’68 le nuove baronie nella scuola

La mia impressione è che tutto quel fervore contestatore e rivoluzionario in Italia si sia tradotto in nuove baronie, ovviamente lottizzate, e nella emigrazione verso Paesi dove università e industria collaborano.  Ci sono eccezioni anche in Italia, non c’è dubbio, come ci sono baronie anche all’estero.

Ma da noi tutto è peggio, tutto è più inquinato da ideologia e interessi di parte.

Mi sono sentito spinto a questo sproloquio leggendo su Repubblica un articolo di Chiara Saraceno contro il ministro della Istruzione Lucia Azzolina. Confesso un debole per la Azzolina. Nell’imperante cattivo gusto di chiamare una donna ministro col titolo di ministra, che ai miei tempi era solo spregiativo e oggi figlio di uno pseudo femminismo conformista, Lucia Azzolina si è definita ministro, in barba ai diktat delle mai abbastanza definibili Fedeli o Boldrini. Per me, che considero la ideologia o non ideologia a 5 stelle l’opposto di tutto quello per cui ho vissuto, è stato amore a prima vista.

Saraceno la attacca duramente:

 “Scuola, i nostri ragazzi e la sciatteria della ministra Azzolina”

(e vai con la minestra della ministra) era il titolo di Repubblica all’ articolo di Chiara Saraceno. Conclude:

“Il ritorno in classe a settembre viene delegato totalmente ai singoli istituti, senza che siano indicate condizioni minime né risorse aggiuntive disponibili. Manca l’idea di una organizzazione complessiva della didattica. E non si fa menzione dei nidi né dei servizi educativi per la primissima infanzia”.
Cosa propone Saraceno?
La critica di Saraceno a me pare fumosa. 
 
Ritengo giusto che se uno nasce in un posto abbia diritto di esserne cittadino. L’opposto è figlio della politica imperialistica dell’impero romano. Però non mi vergogno di dire che lo jus culturae è una buffonata. Cosa vuol dire acquisire una cultura? Non c’è una cultura italiana, ce ne sono tante, quante sono le città, e poi ce ne è una da mille anni sostrato comune alla letteratura italiana.
 
Ma in mezzo ci sono le culture dei guelfi e dei ghibellini, del partito francese e di quello spagnolo, di quello austriaco (che c’era e come, ancora oggi a Udine espongono con orgoglio la foto di Francesco Giuseppe, immemori della pellagra che veniva col suo regno). E quello italiano italiano. Che poi tanto omogeneo non era, come forse ancora oggi insegnano a scuola.
Non bastano 150 ore di corso per diventare cittadini, non bastano 150 ore di scuola coop per laurearsi.