Anche Valeria Fedeli, ministro della pubblica istruzione, soccombe al verbo femminista da salotto e contribuisce allo scempio della lingua italiana. Al giornalista Claudio Tucci, del Sole 24 Ore, che le si è rivolto chiamandola “Ministro”, la Fedeli ha replicato “Riesco a dirle di chiamarmi ministra? No, è complicato…”. Lo ha fatto con tono leggero quasi ironico, un mezzo sorriso, una alzatina di spalle, come era possibile replicarle a muso duro che sarebbe stato meglio si preoccupasse dei suoi titoli di studio piuttosto che della ministra.
Garbato Tucci ha abbozzato: “Ha ragione ministra”.
Avrebbe dovuto dirle: “Ma se lei è ministra io cosa sono, un giornalisto?”
L’elenco può continuare: pediatra o pediatro? pederasta o pederasto? soprano o soprana? Poi ci sono i nomi che finiscono in “e” come cancelliere, presidente (vedi sotto) o giardiniere, anche se il femminile di giardiniere è già occupato da una insalata e da un tipo di auto.
Sembra di essere tornati ai tempi di “Quelli della Notte“, quando mezza Italia si divertiva degli strafalcioni di Nino Frassica.
Ma qui tratta non di un bravissimo e simpaticissimo attore comico bensì del ministro della Istruzione nazionale, ministero oggi scempiato in miur, che fa più pensare a una razza di tori, a un modello di Lamborghini o a un calciatore giapponese di Yokohama; per i più vecchi resuscita il mito di Tamara Baroni detta Tamiura.
Vero è che quel ministro non si distingue per i suoi meriti didattici o scientifici, anzi è stata coinvolta in uno scandaletto sui suoi titoli accademici, incluso un crudele quanto veritiero manifesto che ha tappezzato Roma ai primi del 2017.
Ma questo vuol dire poco, in tutta sincerità. Dicono che Einstein, il cui valore scientifico è fuori discussione, sia stato licenziato dal laoro che aveva trovato in una società chimica. Un eccellente professore può essere un pessimo preside, un ottimo giornalista (o giornalisto?) può essere un disastroso direttore di giornale.
In fondo Valeria Fedeli, zitta zitta, è riuscita dove la Giannini non era riuscita. La Fedeli non ha fatto vedere le tette, non ha antagonizzato i suoi interlocuori, ha tirato i fili di un ricamo molto complesso e ha fatto passare la riforma della scuola senza grandi traumi se non fosse per la presa di posizione di Andrea Orlando, che finora le riforme della Giustizia pare sia riuscito a evitarle tutte ma si è posizionato contro la “Buona scuola 2” probabilmente più per ragioni di campagna elettorale interna al Pd che per ragioni intrinseche.
Ma tutto questo non la autorizza a fare scrivere sul sito del Ministero che le è stato affidato che lei è la “Ministra” e tanto meno a rintuzzare un giornalista con un innato rispetto della ortodossia della lingua.
La deriva di oggi è un po’ preoccupante, non tanto per la lingua, che ne ha visto e subito di ben altre, ma per la futilità dell’impegno profuso da queste donne, cui peraltro fa riscontro una debolezza, un servilismo degli uomini. Fastidiosa è l’insistenza con cui oggi il sindaco donna di una città è chiamato sindaca. Se poi penso alla sindaca Virginia Raggi, viene automatico il rigetto. Non si tratta di una storpiatura dell’italiano, è anche una mortificazione per le donne.
L’ondata di abiura dell’uso corretto della lingua è stata originata dal presidente della Camera Laura Boldrini. In fondo la Boldrini si è limitata a chiedere che presidente fosse preceduto dalla preposizione la, quindi la presidente e non il presidente. Obiettivamente è difficile femminilizzare in presidenta un nome che finisce in e, maschile non per sua intrinseca natura ma per il fatto che da quando gli uomini si ribellarono al predominio matriarcale i posti importanti se li sono sempre conservati loro. Quando si è presentata la necessita, il nome presunto maschile con finale in e è stato femminilizzato con il suffisso -ssa, come nel caso di professoressa o -trice, come attore attrice, direttore direttrice. Fa eccezione preside, che resta tale sia che si tratti del preside sia che si tratti della preside.
Detto fra parentesi, nel caso di direttori di giornale donne, quelle poche che ce l’hanno fatta hanno sempre preferito il termine tutto maschile: io sono il direttore. Direttrice sa troppo di scuola elementare o di capo commessa in un negozio. Per sfregio e invidia contro Daniela Hamaui, quando diventò direttore dell’Espresso, le sue colleghe donne, in spregio della più elementare solidarietà femminile, non solo istigarono gli sciocchi maschietti allo sciopero ma presero a chiamarla spregiativamente “direttora”.