WASHINGTON – Pearl Harbor, 7 dicembre 1941: sono passati 75 anni da quando il Giappone attaccò di sorpresa, senza avere ancora consegnato la formale dichiarazione di guerra, la base americana di Pearl Harbor, affondando diverse navi, fra cui tre corazzate (Arizona, Oklahoma, Utah), uccidendo e ferendo militari e civili: 2.403 morti, 1178 feriti.
Alla vigilia dell’anniversario, Jonathan Mayo ha ricostruito per il Daily Mail quelle tragiche 12 ore di una domenica alle Hawaii che fecero e cambiarono la storia. E ricorda un episodio di pigrizia burocratica: una addetta alle intercettazioni captò che qualcosa non andava, lo disse al suo capo che con grande tranquillità rispose: “Ne parliamo lunedì”.
Gli eventi di quella giornata sono rimasti impressi come profonde ferite nell’anima americana, tuttavia per Churchill hanno rappresentato un punto di svolta che vide Hitler sconfitto, come rivela la drammatica ricostruzione.
Sabato 6 dicembre 1941
Dorothy Edger, addetta alle intercettazioni, capta un messaggio diplomatico giapponese che richiede l’esatto movimento delle navi a Pearl Harbour, base della Flotta del Pacifico sull’isola di Oahu, Hawaii. Dopo essere corsa a riferire il messaggio al capo, le viene risposto: “Ne parliamo lunedì”. Fino ad allora, però, sarà troppo tardi: una vasta flotta giapponese pronta ad attaccare, si sta dirigendo verso la base americana.
Domenica 7 dicembre 1941
A poco più di 200 miglia a nord delle Hawaii, la flotta giapponese sta navigando verso Pearl Harbour a 20 nodi, attraversando mari in tempesta. Il tempo è così sfavorevole che un paio di marinai vengono risucchiati dalla corrente; la flotta è composta da due corazzate, nove cacciatorpedinieri, tre incrociatori e sei portaerei con un totale di 360 cacciabombardieri.
Alla radio, appena terminata una canzone di Bing Crosby, trasmettono l’atteso bollettino meteo: “Oggi tempo parzialmente nuvoloso, con buona visibilità”. Le condizioni ideali per portare a termine la missione e infatti, intorno alle 5:30 di mattina, i primi aerei giapponesi vengono fatti decollare. Nella stazione radar, controllata da Joseph Lockard, gli schermi segnalano qualcosa di molto grande che si avvicina: Lockard non crede ai suoi occhi e pensa si tratti di un guasto, per poi realizzare che potrebbe trattarsi soltanto di una cosa, una moltitudine di aerei che si sta avvicinando. Ma quando avvisa la centrale operativa, gli viene risposto “non preoccuparti…” dal luogotenente Kermit Tyler, che pensa, erroneamente, che una dozzina di B-17 stiano sorvolando i cieli per allontarsi dalla terraferma.
Lockard, però, non è convinto e teme che almeno 50 aerei stiano raggiungendo la base navale. Nel mentre in cielo, il comandante per gli attacchi aerei giapponesi, Mitsuo Fuchida, manda il segnale via radio: “To to to”, che significa “caricate”.
I cacciabombardieri cominciano ad attaccare le navi stazionate a Ford Island, nel mezzo del porto. Le prime bombe, però, non colpiscono gli obiettivi e finiscono nel mare, ma dopo qualche minuto, 33 dei 70 aerei presenti nella base vengono totalmente distrutti.
Vengono distrutte diverse navi, lasciando i marinai intrappolati all’interno. La West Virginia è ormai sommersa e in fiamme, la Utah viene colpita da due siluri torpedo e si rovescia, portando con sé 64 membri dell’equipaggio, l’Arizona affonda insieme a 1.177 dei 1.512 a bordo.
Nel mentre, a Washington, il presidente Franklin D. Roosevelt sta pranzando nello studio ovale, quando una segretaria accorre per informarlo con un messaggio dell’ammiraglio Kimmel: “Raid aereo su Pearl Harbor, non è un’esercitazione”. Il porto ormai è diventato un ammasso di persone che tentano disperatamente di scappare verso la salvezza, chi correndo, chi nuotando, chi nascondendosi.
Alle 9:45 di mattina, l’attacco su Pearl Harbor è terminato. Mitsuo Fuchida è l’ultimo ad andare via, il suo aereo è seguito da altri due danneggiati, che vengono condotti verso la portaerei. Alcuni dei bombardieri giapponesi, durante l’attacco hanno volato così in basso da recidere con i carrelli i cavi per le telecomunicazioni.
Nel frattempo a Washington, Roosevelt detta un messaggio a Grace Tully, la sua segretaria personale: “Ieri, 7 dicembre 1941, resterà nella storia del mondo. Gli Stati Uniti d’America sono stati deliberatamente e improvvisamente attaccati dalle forze aeree e navali dell’Impero giapponese”.
Diciannove navi americane sono state colpite ed affondate, 183 aerei distrutti, 159 danneggiati, 2.403 soldati americani hanno perso la vita, praticamente la metà della popolazione dell’Arizona. I giapponesi, invece, hanno perso 29 aerei, cinque sottomarini e 64 uomini.
Lunedì 8 dicembre 1941
Il presidente Roosevelt dichiara guerra al Giappone e tre giorni dopo Hitler dichiara guerra agli Stati Uniti. Alla fine del secondo grande conflitto, Churchill scriverà che il 7 dicembre fu un agognato punto di svolta: “Dopo 17 mesi di combattimenti e 19 di sforzo estremo personale, avevamo vinto la guerra”.