Le polemiche che hanno accompagnato e seguito il festival di Venezia appartengono in parte all’esoterico mondo degli addetti ai lavori, in parte hanno rilevanza culturale, economica e politica.
Le cose che scrivono i critici non mi interessano, come non interessano alla maggioranza dei lettori dei giornali (due terzi di loro guardano le programmazioni dei film, meno di un quarto legge le pagine degli spettacoli). E poi, devo confessarlo, quello che scrivono gli esperti italiani di cinema non riesco a capirlo.
Per avere un’idea di quel che sostengo, chi è interessato legga l’articolo del New York Times che stronca “Baarìa” di Tornatore e che dà l’onore delle armi alla “Grande Guerra”, linkato da Blitz il 4 settembre e si renderà conto da solo della differenza di stile e sostanza. (Solo un inciso: se qualcuno aveva dei dubbi sull’idea di Bossi di imporre lo studio del dialetto nelle scuole, il flop di Baarìa è la prova che si tratta di una cosa retrograda. Ci hanno sfinito con i film in dialetto meridionale: ci risparmiassero quelli in dialetto settentrionale).
Diverso è il problema quando si parla di cose serie. Il ministro Brunetta pone un tema serio, quello dei finanziamenti alla cultura, in particolare al cinema. Lo fa da demagogo un po’ rozzo, ma la demagogia e la rozzezza dei suoi interventi finora hanno reso, in termini di visibilità e anche di consenso. Nel mondo, e in Italia in particolare, non conta dire delle cose di buon senso, basta sparare frasi a effetto, che incontrino il comune sentire del momento, per avere titoli sui giornali e ottenere una facile popolarità. Niente di nuovo sotto il sole. Orazio, che non era proprio del tutto organico al regime, diceva: “Vulgus vult decipi”, il popolaccio vuole essere preso in giro, e Brunetta, che ha studiato latino, la lezione la sta applicando e bene. Poco importa se con gli slogan il mondo si cambia solo in peggio e se alla fine l’effetto sarà solo di aggravare la sfiducia dei cittadini.
Parlando di cinema, Renato Brunetta non parte da un dato di fatto sbagliato. Lo Stato italiano, con i suoi finanziamenti alla cultura, mantiene molta gente inutile e molti di mezza tacca, che di solito la fanno anche franca. Manca un riscontro di mercato e tutto si dissolve nel disinteresse generale. Una cosa che Brunetta non dice e che può motivare in parte le sue parole, è che il grosso dei destinatari di quei contributi sta a sinistra, perché la destra non è stata capace di esprimere un sistema di cultura alternativo a quello costruito dal Pci di Togliatti, talmente solido e radicato da reggere anche ai colpi di piccone dei suoi successori.
Michele Placido ha ragione a offendersi, perché sparare nel mucchio non è un’operazione intellettualmente onesta, insultare non è da ministro, usare un linguaggio da talk show del pomeriggio contribuisce solo al degrado della politica. Placido, va detto, ha anche ragione a irritarsi perché una straniera gli chiede conto del fatto che il suo film lo ha prodotto la Medusa di Berlusconi. Vada a chiederlo a Benigni, le avrei risposto.
Un altro inciso: Placido sbaglia quando risponde con una parolaccia. Da un personaggio come lui, che ha anche ambizioni pedagogiche, è un segnale forte di legittimazione del turpiloquio in pubblico, che è un altro sintomo di imbarbarimento della società; oltre che di arroganza, perché il potente di turno, nel caso lo stesso Placido, può fare quel che gli altri non possono: e in effetti la domanda, per quanto fastidiosa e anche stupida, non era posta con un linguaggio osceno.
Brunetta sbaglia, nella sostanza, quando finge di non capire che il finanziamento pubblico all’industria del cinema è indispensabile in paesi come Francia e Italia, dove la barriera della lingua ne riduce la presenza sul mercato internazionale fino a soffocare la loro capacità di sviluppo culturale.
Sì, è vero, la “nouvelle vague”, sì è vero Rossellini, Visconti, De Sica e il cinema italiano del dopoguerra; ma quello è passato remoto, frutto di un particolare momento di crescita economica e politica e di presa di coscienza sociale.
Sì, è vero, il mercato produce anche “Desperate housewives” e il “Grande Fratello”: ma quale sarebbe l’alternativa da offrire alla maggioranza che ostinatamente rifiuta di estasiarsi guardando l’Otello di Orson Welles? In ogni caso, l’elenco dei film di qualità che proprio grazie al mercato sono prodotti è molto ampio e la formula di un film di alta qualità per dieci di successo di massa è la stessa che, nell’età dell’oro del cinema italiano, veniva seguita dai De Laurentiis, Ponti, Rizzoli e oggi dalla Medusa.
Può essere una scelta di fondo, in una linea rigorosa e coerente di smantellamento di tutto quel che sa di “welfare state”, quella di lasciare perdere tutto. Come il Texas o il Wisconsin o il Colorado non hanno una loro industria nazionale del cinema, perché non fare lo stesso in Europa?
Le ragioni contrarie sono tante. L’Europa non è l’America. L’America è uno stato, federale e unitario. L’Europa è un’espressione geografica, un mercato, non una nazione. Il cinema americano si alterna tra Los Angeles e New York. Il cinema europeo non ha un territorio in cui riconoscersi e nemmeno una cultura unitaria europea e meno che mai una lingua, soprattutto manca l’elemento unificante di una lingua comune europea.
Un vivaio di cinema nazionale serve alla tv, serve anche per tenere in vita la macchina produttiva che induce Hollywood a realizzare i suoi film in Italia. Se in mezzo c’è qualche imboscato può non fare piacere: ma se si fanno liste di proscrizione di tutti gli imboscati in Italia, non si sa proprio dove si può finire. E chi è senza peccato…
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