ROMA – Ma davvero qualcuno ha pensato che “Il Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone potesse vincere al Festival di Cannes? Passi per i film di Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, “più da Cannes”, un fantasy, seppur un bel fantasy, non è il genere che più convince la giuria di un festival che con Hollywood e il kolossal ha ben poco a che fare. Eppure i giornali italiani ci credevano, ci credevano eccome. In molti hanno elogiato la storia di Garrone, che si distingue dal cinema italiano e cerca un approccio più americano. Come per far vedere insomma che anche il cinema italiano può fare qualcosa di diverso, con una computer grafica di qualità. Eppure la storia insegna che i film italiani sono stati premiati, a Cannes o agli Oscar, quando hanno fatto qualcosa di rigorosamente italiano, non tanto nello stile, ma quantomeno nella storia e nella trama.
Gloria Satta per il Messaggero scrive che:
Promossa la fiaba nera di Garrone. Cannes applaude “Il racconto dei racconti”, primo film italiano in concorso, un fantasy a tinte dark tratto dalle novelle di Basile. C’è chi, come il “Guardian”, lo ha definito «un capolavoro». E, in generale, gli altri giornali stranieri hanno promosso il nuovo film di Matteo Garrone. “Il film a qualcuno potrebbe sembrare spiazzante perché mi sono lanciato con entusiasmo e un po’ di incoscienza nel fantasy, un genere da noi raro”, ragiona Garrone.
Mai come quest’anno possiamo capire la delusione di chi era convinto che ce l’avremmo fatta. Perché i tre film erano molto diversi e tutti diversamente ambiziosi e riusciti, al di là dei gusti personali. Perché con due film su tre girati direttamente in inglese, per il mercato internazionale, l’illusione di essere entrati nel Grande Gioco era davvero insidiosa. E se Il Racconto dei racconti non ha convinto tutti, Youth e Mia madre godevano di ampi consensi. Eppure la giuria guidata dai fratelli Coen ha fatto altre scelte.In buona parte condivisibili se mettiamo da parte – come è giusto – l’orgoglio nazionale. A cominciare dalla palma d’oro, che consacra il talento inquieto di un regista non più giovanissimo ma capace di rimettersi totalmente in gioco facendo un film senza attori di richiamo che illumina in un colpo solo le due facce di quella che chiamiamo l’emergenza banlieue (ma il discorso vale per tutte le periferie europee).Senza cedere di un millimetro né sul rigore del racconto, ispirato in buona parte alle vere esperienze del protagonista, ex-bambino soldato nello Sri Lanka e ora scrittore, Antonythasan Jesuthasan. Né sulla capacità di catturare lo spettatore dalla prima all’ultima scena intrecciando i punti di vista dei protagonisti e alternando con sapienza azione e intimismo. Fino a rivelare uno dei tanti microcosmi accanto a cui passiamo con indifferenza ogni giorno. Mostrandoci al tempo stesso il nostro Occidente attraverso lo sguardo innocente e rivelatore degli ultimi arrivati.