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Natascha Kampusch: cosa resta dei 3.096 giorni con Priklopil? Un film e un abuso (edilizio)

di Redazione Blitz |8 Settembre 2022 21:52

VIENNA – Natascha Kampusch, 25 anni appena compiuti, adesso può rivedere la propria vita in un film con regista, interpreti e produzione tedeschi, 3.096 giorni. Sono quelli che passarono fra il 2 marzo 1998 al 23 agosto 2006, che lei visse reclusa in uno scantinato di uno di 3 metri per 4, alto 160 centimetri e sigillato con una porta blindata ed entrata nascosta dietro un armadio, totalmente soggiogata da Wolfgang Priklopil, tecnico elettronico che al momento del rapimento aveva 36 anni.

Quel giorno maledetto Natascha stava andando a scuola. La sera prima suo padre, separato, l’aveva riportata a casa di sua madre in ritardo. La donna, infuriata, se l’era presa anche con la bambina. Lei l’indomani era uscita di casa senza salutare la mamma. Ha rivissuto quei momenti nella sua autobiografia, tradotta in 37 lingue, che come il film si intitola 3.096 giorni:

“Stavo camminando verso la scuola, vidi quel furgone bianco, e quell’uomo. Ebbi una paura irrazionale, ricordo la pelle d’oca. Ma mi dicevo tra me: «Niente paura, niente paura». Quante volte mi ero vergognata della mia insicurezza: avevo dieci anni, vedevo gli altri bambini più indipendenti. Ero piccola, in quell’istante mi sentii sola, minuscola, impreparata. Ebbi l’impulso di cambiare lato della strada, non lo feci. Poi i miei occhi incontrarono quelli di quell’uomo, erano azzurri, aveva i capelli lunghi, sembrava un hippy degli anni Settanta. Pensai che lui sembrava quasi più debole di me, più insicuro. Mi passò la paura. Ma proprio quando stavo per superarlo lui mi prese, mi lanciò nel furgone. Non so se gridai, se mi difesi. Non lo so, non lo ricordo”.

La Kampusch non ha mai voluto recitare la parte della vittima. Ha voluto combattere – davanti a tutti – con quei 3096 giorni, per riprendere in mano la propria vita. Fra le difficoltà che ha dovuto affrontare ci sono anche le voci e le speculazioni sulla natura del suo rapporto col suo carnefice. Si è parlato di qualcosa che andasse ben al di là della sindrome di Stoccolma. Lei ne ha parlato così: “Wolfgang Priklopil mi ha allo stesso tempo messa su un piedistallo e calpestata con i suoi piedi”. La trattava ora come un gatto di casa, ora come una bambola in carne e ossa, ora come una schiava. Racconta Natascha:

Mi chiuse dietro porte pesanti, alla prigione fisica aggiunse quella psichica. Volle anche che cambiassi nome, me ne fece scegliere un altro. Divenni Bibiana, voleva che io fossi una persona nuova, solo per lui. E io iniziai a ringraziarlo per ogni piccola concessione. Mi diceva: “Per te esisto solo io, sei la mia schiava. Lui regolava la mia veglia spegnendo o accendendo la luce, decideva se privarmi del cibo o farmi mangiare, mi imponeva periodi di digiuno forzato, decideva le razioni di cibo, fissava la temperatura nella stanza. Decideva lui se avevo caldo o freddo. Mi ha tolto ogni controllo sul mio corpo, mi picchiava in continuazione. Dovevo accettare, a volte apparire sottomessa per sopravvivere, altre volte dovevo impormi e sembrare più forte di lui: non ho mai obbedito quando mi chiedeva di chiamarlo “padrone”

A volte escono, vanno al supermercato. Ma lui riesce a tenerla sotto scacco psicologico: “Se ti metti ad urlare ammazzo te e tutti quanti gli altri”. Oppure passano insieme un intero weekend in montagna, incontrano un turista, ma lei non riesce a parlarci. La sera, dall’età di 14 anni in poi, Priklopil la fa uscire dalla prigione di 12 metri quadrati per portarsela a dormire con sé. Ammanettata. Di abusi sessuali Natascha non ha mai voluto parlare, ma nel film c’è una scena, non esplicita ma forte, di sesso fra i due. Eppure 3.096 giorni non è un film esplicito, anzi va nella direzione opposta rispetto alle sceneggiature tutto sesso-e-violenza che le avevano proposto fin dai primi giorni della sua libertà.

Il 23 agosto 2006 Priklopil è in giardino, al telefono, a trattare su un appartamento da cedere in affitto. Anche Natascha è in giardino: appare molto concentrata in una delle sue mansioni da schiava, il lavaggio della Bmw del suo padrone. Invece pensava a fuggire. In pochi attimi si liquefanno otto anni e mezzo di prigionia: “Lasciai cadere l’ aspirapolvere e mi precipitai al cancello. Era aperto”. Lui tenta di rincorrerla, non ci riesce.

Realizza subito la sua sorte e decide di farla finita. Chiama un suo socio e amico, Ernst Holzapfel, gli racconta una frottola (“mi ha fermato la polizia per guida in stato di ubriachezza, sono scappato, se mi prendono mi tolgono la patente: non potrò più andare a trovare mia madre, sono disperato”), si fa accompagnare ad una stazione a nord di Vienna, appoggia la testa sui binari e aspetta. Al suo funerale ci saranno solo la sorella di Holzapfel e sua madre, Waltraud Priklopil. È sepolto nel cimitero viennese sotto falso nome, per timore di atti vandalici.

Nei pezzi di una vita che Natascha sta faticosamente rimettendo insieme c’è anche la casa di Priklopil, quella prigione nella quale ha passato tutta la sua adolescenza: lo Stato l’ha assegnata a lei per una sorta di contrappasso. Quello Stato, che aveva fatto pessime indagini dopo la sua sparizione, che aveva archiviato il suo caso dandola per morta, che aveva ignorato per otto anni e mezzo Priklopil e la sua villetta, si è improvvisamente accolto che in quella villetta di Strasshof era stato commesso un grande crimine: un abuso edilizio. Il Comune le ha fatto recapitare un avviso in cui le ordinava di rimuovere “lo spazio non autorizzato scavato” nel seminterrato della casa. Natascha ha dovuto far murare la cella. Quella stanza piena di ricordi terribili ora sopravvive solo nella memoria della Kampusch. E sul set di 3.096 giorni, nei Bavaria Studios.

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