Mank: recensione del film di David Fincher con Gary Oldman

di Giuseppe Avico
Pubblicato il 29 Aprile 2021 - 07:51| Aggiornato il 1 Maggio 2021 OLTRE 6 MESI FA
Mank: recensione del film di David Fincher con Gary Oldman

Mank: recensione del film di David Fincher con Gary Oldman

Una didascalia a tutto schermo sul nero, poi le note di una musica introduttiva ed immersiva, infine i titoli di testa (in parte a scorrimento). Proseguono, così come la musica, guidando lo spettatore a Victorville, California. Siamo nel 1940. Sulla strada sfrecciano due automobili, poi l’arrivo al ranch North Verde. La musica si ridimensiona progressivamente, in levare. Da una delle due auto scende il personaggio principale, acciaccato e malconcio, lo sceneggiatore Herman Mankiewicz. Così si apre magistralmente il film Mank, undicesima pellicola del regista David Fincher, targata Netflix, con protagonista Gary Oldman.

Recensione del film Mank: la trama

Il film si articola narrativamente attraverso due blocchi temporali distinti ma intrecciati. Quello “principale” segue lo sceneggiatore Herman Mankiewicz, nel 1940, impegnato nella stesura del film Quarto Potere di Orson Welles. L’altro, invece, accompagna lo spettatore nella Hollywood degli anni ’30, contesto storico nel quale l’occhio dello stesso Mankiewicz fa da “narratore”. Di base il film racconta la stesura della sceneggiatura di Quarto Potere, per esteso il corso degli eventi retrostanti ad essa, accomunati dalla presenza di un protagonista che è Mankiewicz.

Una concatenazione di scene che ricorda proprio Quarto Potere

Partiamo dalla trama, parlando di uno dei tanti punti di forza del film: la suddivisione temporale degli eventi narrati. Due blocchi che si influenzano toccandosi ripetutamente, pur mostrando tempi e luoghi differenti. Riuscire a farli coesistere, attraverso una concatenazione coerente ed efficace, non è roba da poco. Il film di Fincher riesce non solo in questa impresa, ma ha perfino la capacità di giocare con sapienza proprio su questo aspetto, camminando a piedi nudi sulle rose, e sulle spine.  Un terreno minato dove è facile saltare in aria, ma il film colpisce per il suo essere estremamente chiaro agli occhi del pubblico, coinvolgendolo emotivamente.

Questo tipo di narrazione ricorda, tra l’altro, proprio quella del film Quarto Potere, nel quale ci veniva presentata la storia di Charles Foster Kane (liberamente ispirata a quella di William Randolph Hearst) attraverso salti temporali che ne scandivano la narrazione stessa in modo non lineare. Una scelta coscienziosa al di là dello stile che funzionava meravigliosamente in Quarto Potere e che funziona altrettanto bene anche in Mank. Per rendere possibile questa scelta c’è bisogno, per forza di cose, di un montaggio tale da esaltarne le capacità espressive. Il montaggio di Mank fa esattamente questo (e lo fa bene) attraverso la mano di Kirk Baxter, due volte premio Oscar.

Herman Mankiewicz, il 1940 e gli anni ‘30

Non ci sono scene senza protagonisti. Ecco che Mank ci presenta il suo, quell’Herman Mankiewicz sceneggiatore, argonauta del cinema classico, intellettuale sbilenco ma professionale, defilato e quasi in disparte ma immerso nella macchina (industriale) dei sogni, quella del cinema. Brillante e sincero, controcorrente ed irriverente, accanito bevitore e ostinato scommettitore, pistolero della parola e dell’eloquenza, per alcuni un giullare di corte, odiato ed amato.

Un giovane e talentuoso Orson Welles gli affida la stesura del suo primo film, quel Quarto Potere che a parlarne oggi, come il capolavoro che tutti riconosciamo, mette i brividi. Una stesura con i tempi ristretti, prima novanta giorni, poi sessanta. Niente distrazioni, vale a dire niente alcool.

Torniamo indietro di qualche anno

Ci viene mostrato Herman Mankiewicz nel pieno della sua attività professionale, prima alla Paramount e poi alla MGM. Il film si concentra su di lui ma il contesto sociale e politico non rimane sullo sfondo tanto a lungo, e qui sta l’altro punto di forza del film. L’America degli anni ’30, e più nello specifico il microcosmo che più ne riflette le contraddizioni, ossia il cinema, è riprodotta con grande cura sia in termini stilistici (vedi la scenografia) che in quelli contenutistici (la politica, per esempio). Ecco che Mankiewicz si inserisce all’interno di questo sfondo/contesto come la pecora nera del gruppo. È anche il contesto a colorire il personaggio, il suo carattere, la sua posizione politica, i suoi vizi e i suoi sbagli.

Oltre al personaggio, il film ci propone un quadro lucido e mai narcisistico di quella che è stata la Hollywood dei tempi d’oro, quella dell’avvento del sonoro, la stessa che fa brillare la propria luce sugli schermi ma che nasconde le proprie ombre dietro ai suoi interpreti. In questo senso, la pellicola indaga con grande potenza scenica, oltre che contenutistica, il ruolo del potere nel cinema e non solo, e lo fa con una sceneggiatura solidissima. Magnati nei loro castelli arroccati, feste in maschera, il sorriso beffardo e un attimo dopo, voltando la testa, il disgusto; il cinema che si insinua come un serpente velenoso nei meandri di una politica votata all’apparenza, al raggiro, alla contraffazione. Ecco che un’elezione, quella a governatore della California datata 1934, mette in mostra il potere della comunicazione e al tempo stesso il potere di distorcerla, con enormi e disastrose conseguenze sul singolo e sulla società tutta. Un’immagine che si riflette nel tempo, anche nella contemporaneità.

David Fincher oltre il thriller, per amore del cinema

No, David Fincher non ha diretto solo film thriller, ma è indubbio che la sua capacità espressiva si mostri al meglio attraverso il genere. Sono suoi quelli tra i migliori film thriller degli ultimi 20-30 anni, da Seven a Fight Club, da Millennium a Gone Girl, passando per il suo capolavoro Zodiac. Eppure, quando il regista americano si allontana dal genere, i risultati sono altrettanto ottimi, The Social Network su tutti. Ora Fincher, con Mank, ha fatto un passo in avanti notevole, forse anche due. Ha lasciato il suo genere da parte ma ne ha raccolto tutte le peculiarità visive e le ha trapiantate, con le dovute accortezze, sul bianco e nero meraviglioso di questo film. Poi ha fatto una cosa inattesa ma assolutamente intelligente: parlare del cinema classico vestendone i panni in tutto e per tutto. Ecco che il film sembra uscito direttamente dagli anni ’40: suoni ovattati, riprese tipiche dell’epoca, omaggi ai maestri del cinema classico (su tutti, ovviamente, Orson Welles). Una scelta che sa di amore per il cinema oltre ogni falsa e cieca glorificazione a buon mercato.

Gary Oldman e tutto il resto

Sarebbe ingiusto, forse, soffermarsi solo e soltanto sul protagonista di questo film, dopotutto non stiamo parlando del classico one man show. Il cast è eccellente, le interpretazioni ottime, quelle di Charles Dance e Amanda Seyfried in particolare. Eppure, risulta difficile non soffermarsi sull’ennesima grandissima interpretazione di un Gary Oldman sugli scudi. In questo film riesce a vestire i panni di Mank, sceneggiatore eclettico ed eccentrico, con grande capacità attoriale, incarnandone perfettamente la complessità caratteriale, la dicotomia tra genialità e autodistruzione, tra l’estro e il vizio. Un personaggio sfaccettato e multiforme attraverso il quale l’attore dà manifestazione (ancora una volta) del suo innato talento.

Mank è un’opera che parla di cinema attraverso il cinema, che parla della scrittura, intimamente rappresentata per il suo valore, che parla di un’epoca lontana, ma non tanto da farci sentire estranei alle emozioni e al fascino che suscita. Fa tutto questo nella maniera più congeniale ad un’opera di grande impatto: unire la forma allo stile, i contenuti alla bellezza visiva, i temi fondanti alla magnificenza scenica. Quello che ne nasce è un capolavoro, ma sarà il tempo a sancirne il valore e ad impreziosirlo.

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Mank: la scheda del film

  • Anno: 2020
  • Genere: biografico, drammatico
  • Regia: David Fincher
  • Sceneggiatura: Jack Fincher
  • Fotografia: Erik Messerschmidt
  • Montaggio: Kirk Baxter
  • Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross
  • Scenografia: Donald Graham Burt
  • Cast: Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Charles Dance