PARIGI – Si è salvato lasciandogli credere di essere musulmano. Ma senza mentire. Ely Vaqnin, ebreo, 70 anni, due giorni fa si trovava nel negozio “Hyper Cacher” di Parigi sotto la minaccia dei Kalashnikov di Amedy Coulibaly. Ai microfoni della radio militare israeliana ha raccontato quelle ore di terrore.
‘‘Da dove vieni?” gli ha chiesto il terrorista. ”Dal Marocco” ha risposto in arabo Vaqnin, indicando il Paese in cui è nato. ”Sei islamico?” ha indagato ancora l’altro. ”Sono un Mussawi”, ha svicolato l’ostaggio: della stirpe di Mosè, dunque ebreo. Ma Coulibaly ha ritenuto che quella parola, che è anche un tipico cognome arabo, potesse essere una corrente minoritaria dell’Islam. E per questo non ha sparato. Con Vaqnin l’uomo venuto dal Mali ha preso allora a chiacchierare in tono amichevole.
”Erano passati due minuti dalle tredici – ricorda il settantenne – quando nel negozio ha fatto irruzione un grande uomo nero con due Kalashnikov, una pistola, un pugnale da commando e un corpetto anti-proiettile. Ha subito ucciso quattro avventori, senza alcun preavviso. In quel luogo chiuso, gli spari del Kalashnikov sono rimbombati come cannonate”.
Dopo aver avuto cura di bloccare tutti gli accessi,
”Coulibaly ha cominciato a concionare. ‘Ucciderò tutti gli ebrei, tutti i cristiani, tutti gli infedeli… Ho combattuto nel Mali, in Afghanistan, nello Yemen. Sono dello Stato Islamico”.
Vaqnin ha percepito che la volontà di quell’uomo di spiegare le motivazioni dell’irruzione andava stimolata. Gli si è avvicinato e ha intavolato una conversazione in arabo, conquistando gradualmente la sua fiducia.
”Allora gli ho detto che il rispetto dell’Islam imponeva che i morti fossero sepolti nel giorno stesso (venerdì). Lui si è opposto. Temeva un intervento della polizia. Ma mi ha consentito di chiudere i loro occhi. Mi sono avvicinato alle vittime e ho mormorato l’estrema preghiera ebraica, Shemà Israel.
Poi mi ha chiesto se nel negozio ci fosse una postazione internet. Gliel’ho mostrata e mentre era impegnato ho inoltrato messaggi Sms alla polizia. Mi hanno ordinato di tenere il telefono aperto. Loro hanno alzato il volume e nelle cinque ore successive hanno sentito tutto.
Nel negozio molti piangevano. Ma lui con me era amichevole. A un certo punto gli ho proposto di pregare e l’ho condotto in un angolo. Quell’asino ha deposto i Kalashnikov a terra. Ma non ho sfruttato la occasione: aveva ancora la pistola, poteva facilmente colpirmi. Insomma: lui recitava le preghiere in arabo, io ripetevo le medesime parole”.
Il tempo, nel negozio assediato, passava. Coulibaly, precisa Vaqnin, non dava segni di stanchezza ma aveva fame.
”Ci ha ordinato di prendere dei prodotti alimentari, ha voluto che mangiassimo. Io pensavo che forse quello era il mio ultimo pasto”.
E gli ostaggi che si erano nascosti nel frigorifero, con l’aiuto di un commesso africano?
”Quello poteva rivelarsi un errore. Quella cella è come il frigo di casa. Si apre solo dall’esterno”.
Intanto da una finestra Vaqnin ha notato che le forze speciali francesi si stavano preparando all’assalto. Ha avvertito a mezza bocca gli altri ostaggi di tenersi pronti a lanciarsi a terra.
”Con l’irruzione gli agenti hanno lanciato almeno 20 bombe assordanti. Coulibaly è rimasto disorientato. Lo hanno attaccato da tre direzioni diverse, lo hanno ridotto a un colabrodo. In testa aveva 35 fori. Hanno fatto un lavoro proprio eccellente: è stato un grande successo della polizia francese”.