Il 25 luglio 1943 visto, vent’anni dopo, cioè mezzo secolo fa, da Luigi Salvatorelli, storico antifascista e editorialista della Stampa di Torino, di cui fu anche direttore prima del fascismo.
Ci furono, è la tesi di Luigi Salvatorelli che a sua volta si basa sulla ricostruzione di un grande giornalista, Paolo Monelli,
due serie di azioni politiche, indipendenti e praticamente inconsapevoli l’una dell’altra, che sboccarono nel Venticinque luglio:
1. i piani dei generali;
2. l’intrigo della dissidenza fascista,
cui si deve aggiungere
3. la determinante “decisione presa dal re — secondo la sua formale, attestazione— fino dal gennaio 1943 di licenziare Mussolini”.
Il generale Giuseppe Castellano, quello che poi firmò l’armistizio con gli americani
“fece leggere a Ciano un suo progetto per l’arresto di Mussolini; del complotto dei generali i gerarchi fascisti dissidenti dovettero aver sentore. Logico pensare che ciò dovesse stimolarli ad agire più sollecitamente. D’altra parte, che il re fosse in massima al corrente delle disposizioni e dei propositi di Grandi, con cui ebbe vari colloqui, non può mettersi in dubbio.
“Sarebbe una congettura infondata o azzardata pensare che il re, direttamente o piuttosto per terza persona, suggerisse a Grandi la convocazione del Gran Consiglio ? Una obiezione si può fare: se ciò fosse avvenuto, Grandi l’avrebbe, a cose finite, rivelato. Ma gli conveniva rivelarlo? Non sarebbe stata una radicale diminuzione di valore della propria iniziativa?
“Una cosa, comunque, è fuori questione: fino al Gran Consiglio, il re non si decise ad agire. La «minuta preparazione » di cui egli parla nella lettera posteriore ad Acquarone — affermante la decisione di massima già presa nel gennaio ’43 — non gli era parsa ancora sufficiente. Quel che fece scattare la molla regia, fu il voto del Gran Consiglio.
“Esso fornì al re quell’ « appiccagnolo costituzionale » che la opposizione antifascista non era riuscita (a opinione di lui) a fornirgli dopo il delitto Matteotti. E dell’appiccagnolo egli si servì con il duce per licenziarlo, annunciandogli la nomina già avvenuta del successore: nomina compiuta dopo il deliberato del Gran Consiglio. Salvo poi a far dire dal comunicato ufficiale che il re aveva accettato le dimissioni del cavalier Mussolini”.
Come si deve valutare “l’atto regio”, si chiedeva Salvatorelli appena 20 anni dopo; quale ne era
“la determinazione del suo significato storico?”.
Mentre vengono i brividi, a chi legge la storia remota e recente senza i paraocchi dell’ideologia o della disciplina di partito, per le ricorrenti analogie nelle vicende italiane, al termine di un altro ventennio, vediamo le parole di Luigi Salvatorelli:
“Il congedo di Mussolini, con arresto, viene chiamato correntemente colpo di Stato. Nello stretto senso del termine, non fu tale, perché il re rimase nei limiti dei suoi poteri costituzionali, conservati sotto il fascismo. Il quale fascismo non aveva mai realizzato una nuova costituzione, mantenendo invece formalmente il regime statutario albertino e non rinnegando neppure lo svolgimento di questo in senso parlamentare: svolgimento che tuttavia non aveva cancellato la disposizione albertina, secondo la quale i ministri erano nominati e revocati dal re”.
La nomina da parte del successore del re, il Presidente della Repubblica, è ancor oggi potere del Capo dello Stato.
“In sede politico-storica, però, il Venticinque luglio fu veramente un colpo di Stato, e dei più qualificati. I colpi di Stato, anzi, furono due: del Gran Consiglio e del re; ma il secondo fu il decisivo. Tuttavia esso non pose le basi dell’opera di ricostruzione e di salvezza che il momento storico richiedeva e che il paese più o meno coscientemente invocava.
“Fu atto formalmente costituzionale, sostanzialmente di ancien regime. La nazione non fu chiamata in nessun modo a partecipare al nuovo corso, neppure nei modi e con i limiti che la situazione straordinaria avrebbe imposto. Come furono esclusi, con loro amara sorpresa, i dissidenti fascisti che avevano domandato il ripristino della funzione regia, così lo furono gli oppositori antifascisti, anche i più moderati, anche quelli legati alla tradizione della monarchia parlamentare sabauda.
“Parve una beffa il preannuncio di elezioni della Camera dei deputati al posto della disciolta Camera dei fasci e delle corporazioni. Suonò come campana a morto la intimazione: « La guerra continua». Intimazione a cui gli alleati risposero, stoltamente e crudelmente, con l’incremento dei bombardamenti aerei.
“La «minuta preparazione» che re Vittorio rievocò nella lettera ad Acquarone [Pietro, ministro della Real casa]ci fu indubbiamente, per la sostituzione e l’arresto di Mussolini. Se si vuole, sotto questo aspetto, Venticinque luglio fu un capolavoro. Mancò del tutto, invece, la grande preparazione: l’apprestamento per la preservazione del suolo nazionale contro la doppia invasione; la riorganizzazione interna, provvisoria quanto si vuole, ma con un minimo indispensabile di validità politica e morale; la ricerca preventiva di un contatto decoroso e fruttuoso con gli alleati.
“Il Venticinque luglio fu — nonostante ogni migliore soggettiva intenzione che non si vuol negare a priori — atto dinastico di salvataggio, mal condotto anche come tale. Quanto in esso ci poteva essere di vantaggioso per il paese, fu annullato dall’ Otto settembre. Del quale più di uno sono i responsabili, italiani ed esteri. Ma la storia non può non collocare in cima a tutti Vittorio Emanuele III, per quanto aveva consentito nel ventennio e per quanto trascurò durante la «minuta preparazione»”.
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