Aborto a Roma, il nome della donna sulla tomba del feto Aborto a Roma, il nome della donna sulla tomba del feto

Abortisci a Roma? Feto sepolto al cimitero col tuo nome, anche se non vuoi

Per tre volte chiese, dopo l’interruzione di gravidanza, che fine avesse fatto il feto e per tre volte si sentì rispondere ‘non sappiamo’.

Ieri ha scoperto che è stato sepolto in uno spazio brullo del cimitero Flaminio con una croce col suo nome. Aborto a Roma significa anche questo: sulla tragedia personale, privatissima, il marchio indelebile dell’indegnità, sotto una cristianissima croce.

Aborto a Roma, un’altra donna denuncia: “Ora class action”

La storia è identica a quella dell’altra donna che ha squarciato il velo su questa pratica. Una pratica che viola la privacy, non rispetta l’intimo dolore, infligge una punizione supplementare, espone al pubblico disprezzo…

Il racconto, anche in questo caso, è affidato a Facebook. “Ora serve un’enorme azione collettiva”, dice la donna.

Una class action, perché la pratica riguarda tante, troppe donne, seppellire i bambini non nati all’insaputa della madre a Roma è abitudine seriale.

Dignità del figlio non nato al prezzo del marchio di infamia per la donna?

Perché? A prescindere dalle inchieste, dal faro del Garante della Privacy, qual è il principio o il valore che ispira tanto accanimento?

Su Avvenire, il giornale dei vescovi, Antonella Marinai prova a spiegare che, insieme al diritto alla privacy (ma non all’aborto che non è un diritto ma “una tragedia in forma di prestazione sanitaria regolata”) deve essere riconosciuta la dignità del feto.

La sua esistenza, pur abortita, è sacra, non ci si può rassegnare a ridurla ai minimi termini di “rifiuto ospedaliero”, “prodotto del concepimento”, “parti anatomiche riconoscibili”.

Ragioni nobili che tuttavia sembrano eludere la questione, mettere tra parentesi il diritto alla privacy della donna. Quel nome sulla croce, senza avviso e senza autorizzazione, è un marchio di indegnità a futura memoria. Assomiglia a un altro capitolo nella storia della colonna infame.

Il post su facebook: “M sono sentita come sepolta viva…”

La prima volta che ha chiesto del feto, racconta la donna, è stata quando “la mattina dopo mi hanno frettolosamente dimesso dal reparto e mi risposero di lasciare stare. Pensai: ‘Che tatto. Evitano di dirmi che l’hanno buttato tra i rifiuti speciali'”.

“La seconda volta chiedo alla visita di controllo. La dottoressa che mi aveva fatto abortire mi disse ‘Del feto non so nulla’ – spiega ancora la donna-.

La terza e ultima volta quando sotto Natale, a distanza di più di tre mesi dal parto, finalmente mi è stata consegnata la tanto attesa Cartella Clinica e anche in quella occasione la risposta della signora allo Sportello Referti fu ‘non so dirle del feto, mi dispiace’.

Ora – prosegue la donna – ieri vedere il mio nome su quella brutta croce gelida di ferro in quell’immenso prato brullo è stata un’altra profondissima pugnalata.

Un dolore infinito e una rabbia da diventar ciechi. Avete presente quella scena di Tarantino dove lei viene sepolta viva sotto terra? Ecco, io stanotte ho sognato quella roba là – conclude – e mi sono tirata su di scatto congelata. Ora che conoscete i fatti, mi concedete di usare il termine tortura?”. (fonti Ansa e Avvenire)

 

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