MILANO – Il loro padre, Alessandro Facchi, è morto di coronavirus il 19 marzo a Calcio, in provincia di Bergamo, la più colpita d’Italia.
Loro, le sorelle Daniela e Pierangela Facchi, si erano messe in isolamento volontario e avevano chiesto di potersi sottoporre al tampone, anche perché sarebbero dovute tornare al lavoro, ma non sono riuscite a farlo.
Solo il 31 aprile, 33 giorni dopo il decesso, sono state chiamate, e adesso attendono di potervisi sottoporre.
La denuncia arriva dalle due donne, intervistate da Agorà, programma di attualità di Rai Tre.
“Ho chiamato il medico – ha raccontato una delle due donne sorelle – perché essendo lavoratrice dipendente ho dovuto fare la segnalazione, mi ha fatto il codice, sono stata in quarantena fino al 31 di marzo. Continuavo a chiamare e mi dicevano, non avendo sintomi, di stare tranquilla, il 31 ho chiamato e ho detto loro: io domani devo andare a lavorare”.
La donna era stata ovviamente in più occasioni a contatto con suo padre, poi morto per coronavirus: “Io uscivo per andare a lavorare e basta, uscivo per andare a lavorare, in un ambiente pubblico in un’impresa di pulizie. Non vedo molta gente in giro perché la situazione è limitata ma sono a contatto con persone che non conosco e non sanno dove possa essere stata”.
“Al 31 di aprile, 33 giorni dopo la morte di mio padre – ha raccontato l’altra sorella – siamo state chiamate ci hanno detto che ci faranno il tampone dai primi di maggio, apriranno gli ambulatori e saremo chiamate. Ho chiesto che senso ha fare il tampone dopo due mesi, ma questa è la prassi”. (Fonte: Ansa)