Cassazione, se da flirt occasionale nasce un figlio la madre non è tenuta a informare il padre Cassazione, se da flirt occasionale nasce un figlio la madre non è tenuta a informare il padre

Cassazione, se da flirt occasionale nasce un figlio la madre non è tenuta a informare il padre

ROMA – Se da un flirt occasionale nasce un figlio, la madre non è tenuta a comunicarlo al padre. A dirlo è la Cassazione che ha negato la “lesione del diritto alla genitorialità”, a un uomo che si era disinteressato dell’evoluzione di un rapporto fugace avuto con la madre di suo figlio. 

Anzi l’uomo, portato in causa dalla partner occasionale per il giudizio di paternità, aveva anche negato l’incontro, avvenuto nel 1967 e attestato da test del Dna solo recentemente. 

Quindi era passato al contrattacco chiedendo alla donna e al figlio ormai più che adulto, il risarcimento danni per non aver vissuto il legame della paternità lamentando di non essere stato informato della gravidanza e dell’esistenza di progenie.

I supremi giudici gli hanno dato torto, precisando che nel caso di relazioni del tutto estemporanee e non codificate da un legame sentimentale o da una convivenza, non esiste alcun obbligo per la donna di informare l’uomo della gravidanza in corso.

Questa mancata informazione, dicono gli ermellini, non è punita da nessuna legge anche se è un comportamento “non de jure” e proprio per questo può dar luogo al risarcimento dei danni morali.

Ma non in favore di chi, come in questa vicenda, non si preoccupa delle “conseguenze” delle sue azioni, sviluppatesi in un unico rendez-vous, e combatte con tanto di avvocati contro la dichiarazione giudiziale di paternità.

Così la Suprema Corte ha confermato il giudizio della Corte di Appello di Venezia che nel 2017 aveva ritenuto “inconfigurabile” il danno da perdita di chances di questo padre “tardivo” che ha “ostinatamente” contestato la relazione con la donna dalla quale ha avuto, peraltro, il suo unico figlio. 

Dalla ricostruzione dei fatti, in base ai faldoni del processo civile, emerge che tra Maria e Alberto “vi fu un unico incontro senza che seguisse non solo una convivenza di fatto ma neppure una relazione di tipo sentimentale: la donna, infatti, contrasse matrimonio con un’altra persona dalla quale ebbe prole e nell’ambito di detta famiglia – spiega il verdetto della Cassazione – è cresciuto” il figlio Paolo avuto da Alberto.

I nomi sono di fantasia per motivi di privacy, data anche la notorietà del cognome del padre tardivo.

Passano gli anni, ed è probabilmente l’affermarsi dei test genetici che spinge Maria e Paolo a intraprendere la causa per il riconoscimento giudiziale di paternità, al quale Alberto si sottrae tanto che i giudici ordinano a due ospedali veneti – di Jesolo e di San Donà di Piave – di consegnare i vetrini con materiale biologico prelevato all’uomo durante dei ricoveri.

Senza successo, il padre tardivo contesta anche la consegna dei vetrini. Ma sia in primo che in secondo grado, e adesso anche la Cassazione, fa presente che gli ospedali per dieci anni sono tenuti a conservare i vetrini dei pazienti deceduti e a consegnarli su richiesta dei giudici.

Nel frattempo Alberto, dopo il primo grado, muore ed è un parente nominato suo erede a portare avanti la battaglia per ottenere il risarcimento danni da Maria e Paolo, accusati di aver taciuto.

Niente da fare, anche la Cassazione ha detto che la richiesta era “incompatibile con il comportamento processuale tenuto da Alberto che ha sempre ostinatamente negato qualsiasi possibilità di una sua paternità, negando di aver avuto rapporti con Maria”.

Insomma per lui non essere stato vicino al figlio non è stata una “occasione perduta” e si è “disinteressato” delle conseguenze di quell’unico incontro nell’estate del 1967. (Fonte: Ansa).

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