Cassazione: padre di Hina non uccise per motivi religiosi

Non fu legata a motivi religiosi o a riferimenti culturali la morte di Hina, la giovane ragazza pachistana sgozzata dal padre con la complicità di due generi, nell’agosto del 2006, nei dintorni di Brescia. Lo sottolinea la Cassazione – nella sentenza 6587 depositata oggi – rilevando che il padre omicida agì per un «patologico e distorto rapporto di ‘possesso parentale’».

Aggiunge la Suprema Corte – che ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione per Saleem Mohammed – che il padre ha sfogato «la riprovazione furiosa del comportamento negativo della propria figlia», che voleva vivere liberamente la sua vita convivendo con il fidanzato, non perché mosso da «ragioni o consuetudini religiose o culturali, bensì sulla rabbia per la sottrazione al proprio reiterato divieto paterno».

Inoltre la Cassazione ha respinto la richiesta del padre omicida di ottenere le circostanze attenuanti confermando che furono abietti i motivi del suo delitto e che è adeguato il trattamento sanzionatorio ricevuto con rito abbreviato. Bocciata anche la richiesta di Saleem di estromettere, dal risarcimento al diritto dei danni morali, Giuseppe Tampini, il fidanzato con il quale Hina conviveva. In proposito i supremi giudici rilevano che la convivenza legittima «il risarcimento dei danni al convivente della vittima di un omicidio».

La Cassazione ha aggiunto anche che, nel caso di Hina e Giuseppe, si trattava di una convivenza protratta nel tempo che aveva «visibilità esterna», comunanza di vita, ricordando anche il sostegno economico-morale assicurato da Giuseppe alla fidanzata.

Sono stati infine condannati a 17 anni di reclusione Khalid e Zahid Mahmood, i due fratelli mariti delle due sorelle di Hina che parteciparono all’aggressione della ragazza nella casa paterna, impedendole di fuggire mentre il padre la inseguiva con il coltello.

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