Cefalonia, forse gli italiani non furono tutti eroi, ma morirono a migliaia, uccisi dai nazisti, abbandonati dal Re e da Badoglio

Cefalonia, gli italiani non furono tutti eroi
Cefalonia, gli italiani non furono tutti eroi

ROMA – Cefalonia, forse gli italiani non furono tutti eroi, ma morirono in tanti, da 1.660 a 2.500, abbandonati a se stessi dal Re, dal Governo Badoglio, dagli alti comandi in fuga verso Brindisi per salvare la pelle e anche, a onor del vero, quel poco di Stato italiano che era rimasto.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 il primo organismo dello Stato a crollare è l’esercito. Migliaia e migliaia di nostri soldati, privi di ordini, vengono disarmati e catturati dai tedeschi in pochi giorni. Proprio in quei tragici momenti, però, alcuni reparti si oppongono al nuovo nemico e iniziano a combatterlo. E’ quello che accadde a Cefalonia e in altre isole della Grecia, in quella che diventò una prima, immediata forma di Resistenza al nazismo.

Fu una scelta istintiva, dettata soprattutto dall’orgoglio militare, e che verrà pagata a caro prezzo. E’ così, quella resistenza tra il 15 e il 22 settembre del 1943 della Divisione Acqui a Cefalonia, per la storiografia resistenziale il primo atto del sollevamento contro il nemico e del riscatto, fu davvero eroica? O un altro capitolo dell’uso politico della storia? In ogni caso siamo davanti a un nuovo episodio di revisionismo, che come tale va preso anch’esso con le molle.

La storica Elena Aga Rossi (“Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito”, Il Mulino – recensito da Paolo Mieli) spulciando negli archivi, compulsando documenti e testimonianze, propone una verità meno assertiva rispetto al presunto eroismo, sulle cifre dell’eccidio (furono tra 1600 e 2500, tanti ma sicuramente non i 9mila accreditati dal Governo italiano nel ’45), sul ruolo di alcuni personaggi-chiave. A cominciare dal comandante, il generale Antonio Gandin, morto anch’egli combattendo.

Fu lui che dovette soccombere alla determinazione di alcuni ufficiali che volevano aprirsi una via di fuga con le armi nonostante gli scarsi mezzi, l’isolamento (gli anglo-americani lontani), la prospettiva dell’eccidio. Fu deciso di affidare la scelta a un referendum (non troppo democratico, rileva Aga Rossi) che sancì la volontà di resistere. Al recalcitrante Gandin, che aveva contezza dei rischi, fu in ogni caso attribuita a posteriori una certa pavidità con l’ex alleato nazista.

Ma, sostiene Aga Rossi, questa versione fu solo l’ultimo esito di una verità storiografica in qualche modo apparecchiata ad arte. Per esempio, viene citato l’attivismo di un ufficiale dell’esercito, Renzo Apollonio, per sminuire la figura di Gandin ed esaltare al contrario quella degli ufficiali (e di se stesso in particolare): si scopre che Apollonio aveva in seguito collaborato con i nazisti e per lavare in fretta la macchia, in prossimità della fine della guerra, brigava per rifarsi una verginità. Alle spalle di Gandin.

Ma perché a Cefalonia i soldati si ribellarono? Secondo un’indagine militare condotta all’inizio degli anni Sessanta, ciò accadde in seguito a «gravi episodi di sobillazione sediziosa da parte di taluni ufficiali», mentre il generale Gandin era «impegnato nelle trattative con il locale comando tedesco». L’accaduto era riconducibile anche ad «arbitrarie intese segrete con elementi partigiani greci ai quali furono perfino cedute da qualche reparto armi e munizioni».

Il rapporto rimproverava, neanche tanto velatamente, a Gandin una «certa debolezza», non già verso i tedeschi, bensì nei confronti di alcuni suoi ufficiali e soldati che in quei giorni avevano fomentato la rivolta. Una debolezza manifestatasi, secondo il rapporto, «con la mancata adozione di severe misure contro i principali responsabili di attività sediziosa e di intemperanze disciplinari». In effetti, ancorché eroica, quella ribellione — sottolinea Aga Rossi — non si configurò come un episodio della Resistenza. Quei soldati consideravano il loro non come «un gesto di eroismo resistenziale», bensì come «la via più diretta per tornare a casa». (Paolo Mieli, Corriere della Sera)

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