ROMA – Un bambino di 10 anni trascinato per strada. Preso da quattro persone per le caviglie e per le braccia. Urla, si dimena, piange. Dietro di lui la zia urla: “Lasciate stare il bambino”. Quei pochi minuti di video restituiscono un senso di totale e insopportabile impotenza. Perché davanti a quello che sentiamo come un sopruso o, di più, un’insostenibile ingiustizia, siamo abituati a pensare: “Ora chiamo la polizia”. Già, ma cosa si fa se quelle urla e quella disperazione sono causate da agenti di polizia? Chi si chiama in quel caso? Quella zia, che stava assistendo all’esecuzione dell’ordinanza del tribunale minorile, urlava tutta la sua impotenza. Ma ha anche avuto la prontezza di registrare, probabilmente con un telefonino, quelle immagini sconcertanti. Una volta trasmesse dalla trasmissione Chi l’ha visto? su Rai Tre hanno fatto il giro di siti e blog.
E ora, grazie al tam tam mediatico di siti e blog, quelle immagini stanno facendo il giro della rete, viste da milioni di persone. Una delle tante domande che questa storia suggerisce è: questi metodi sono da considerare normali? E subito dopo: nel caso invece quei metodi non siano esattamente ortodossi e parte della prassi della polizia, cosa sarebbe successo senza quel video? Se quella zia non avesse agguantato il telefonino e documentato quanto accaduto, se internet e tv non avessero diffuso il tutto, cosa avrebbe potuto fare per dimostrare l’eventuale abuso? A trascinare quel bambino, si legge in una nota della Questura di Padova, erano il padre e un agente cui l’uomo aveva chiesto “aiuto per prenderlo, visto che si divincolava, e farlo salire in auto”.
Discutibile e deprecabile il comportamento del padre. Che però è privato cittadino. L’agente che arriva a trascinare a forza un bambino rappresenta lo Stato però, oltre che se stesso. E il suo comportamento suggerisce qualche interrogativo in più se anche il presidente del Senato Schifani ha chiesto chiarimenti al capo della polizia.
Il Garante della privacy ha commentato: ”Di fronte al diffondersi in rete e nei media del video con le immagini del bambino prelevato a scuola dalle forze di polizia e di dati personali riguardanti anche la sua salute, pur se forniti dai familiari, richiama i media e i siti web al più rigoroso rispetto della riservatezza del minore”. Il garante fa il suo dovere, naturalmente, a dire “attenzione, si tratta di un bambino, ogni cautela va usata”. Eppure per una volta il rispetto della privacy del bambino (che pure è stata rispettata come si vede nel video) in questo caso sembra una questione quasi marginale rispetto alla violenza che quel minore ha subito.
Quanto all’abuso (eventuale e da dimostrare, ovviamente) degli agenti, la zia di quel bambino conteso tra il padre e la madre non ha denunciato e non è detto che lo faccia. Certo che quel video ci obbliga ad alcune domande: chi ci difende dall’arroganza di chi deve proteggerci? Arroganza che non si ferma nemmeno davanti a un bambino e che anzi trova il suo culmine con l’ispettore (donna, giovane, forse madre a sua volta) che alla zia in lacrime ma assolutamente inoffensiva dice: “Io sono un’agente, lei non è niente”? Ma soprattutto chi restituirà a quel bambino la fiducia nella polizia, nella giustizia e anche nello Stato? E alla lista aggiungiamoci la nostra di fiducia, che in questa lezione di educazione civica al contrario ha subito un duro colpo.
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