Coronavirus, aperte farmacie e alimentari. Chiudere bar e uffici. Ma le fabbriche?

Coronavirus, Ansa
Coronavirus, aperte farmacie e alimentari. Chiudere bar e uffici. Ma le fabbriche? (foto Ansa)

TORINO – “Se chiude la Lombardia li seguiamo”. “Mi consulterò con le forze produttive per decidere sulle fabbriche”. Sono le parole del governatore del Piemonte Alberto Cirio.

L’ipotesi di chiudere tutto, con un ulteriore giro di vite nella lotta alla diffusione del coronavirus, è sempre più sul tavolo. Si tratta però, allora, di capire che significa chiudere tutto, perché un conto è chiudere bar e ristoranti, da fare senza se e senza ma, ma altra questione è fermare la produzione delle grandi e piccole fabbriche.

Da cui, consapevoli o no, dipende la nostra vita di tutti i giorni. Per primo il presidente della Lombardia Attilio Fontana, poi le opposizioni dopo l’incontro con il premier Giuseppe Conte, e ora Cirio.

Sono sempre più le voci, non solo istituzionali, che chiedono la chiusura totale del Paese con lo stop, come si dice, anche a negozi e uffici. In sostanza l’applicazione del modello Wuhan. Un modello difficile da replicare da noi, in Italia, nelle società occidentali dove le limitazioni delle libertà personali sono in contraddizione con le fondamenta stesse della società, e dove non siamo nemmeno in grado di immaginarci senza alcune ‘cose’ che consideriamo acquisite. Come la capacità di fare la spesa con un click, di avere sempre tutto a portata di mano. Chiudere tutto significherebbe andare ad intaccare queste certezze.

E quindi quella formula, ‘chiudere tutto’, va ragionata e tradotta in azioni e fatti. Che non sono così scontati. Sanità e informazione non chiudono, questo è il presupposto su cui poggia, poggerebbe il prossimo giro di vite. Medici, ambulatori, farmacie e ovviamente ospedali in qualsiasi scenario rimarrebbero e rimarranno aperti. E così anche l’informazione, cioè i Tg e soprattutto quelli della Rai. Per quanto immateriale e incapace di salvare vite, la circolazione di informazioni rimene infatti fondamentale anche per la tenuta del tessuto sociale. Come aperti saranno i supermercati.

All’opposto certa sarebbe la chiusura di bar e ristoranti, non si capisce infatti che senso abbia tenerli aperti sino alle 18 e tenerli aperti in assoluto quando l’obiettivo primo è limitare le occasioni di socialità. Si può anzi si deve fare colazione, mangiare e anche fare l’aperitivo a casa.

Come certa sarebbe la chiusura di tutti gli uffici non essenziali, cioè di quelle funzioni che non assolvono un bisogno definibile come primario e di tutti i negozi.

L’acquisto delle scarpe come della casa, la riunione dall’avvocato come la scelta di una nuova auto sono tutte operazioni dilazionabili. Si chiude e si rifaranno tra 15, 20 giorni o quando sarà possibile. In mezzo un mare magnum di possibili distinguo.

Che si fa, ad esempio, con le fabbriche? Come possiamo rimandare l’acquisto di un auto possiamo anche rimandarne la fabbricazione. Ma è difficile immaginare la chiusura di impianti grandi, medi e piccoli che producono alimentari. Per non parlare di quelli che producono strumenti medici e sanitari in genere.

Queste realtà difficilmente possono essere chiuse. E poi ci sono quelle fabbriche che non possono essere spente, quelle cioè che se fermano le macchine hanno poi bisogno di mesi per farle ripartire.

Che si fa per queste realtà? Senza dimenticare, tra le attività di produzione non sospendibili, quelle che mettono al servizio degli italiani l’energia: le raffinerie, le centrali elettriche ed idroelettriche. Chiudere è probabilmente una buona idea e forse l’unica soluzione per superare questa crisi senza precedenti, oltre che una questione di tempo. Bisogna però mettersi d’accordo su cosa questo significhi e farlo con decisioni unitarie e non a macchia di leopardo. Senza cioè lasciare differenti disposizioni a pochi chilometri di distanza.

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