MILANO – Il grande malato è lombardo, ma non risiede al Sacco, è invece di casa a Piazza Affari. Passata, o fatto il callo alla sbornia di paura, arriva ora il conto del Coronavirus. O almeno il ‘preventivo’ di quello che sarà il costo dei blocchi che ha portato. Un conto decisamente troppo salato per il nord e non solo che ora chiede il contrordine, mentre comincia a sentirsi strettissimo nelle maglie imposte nelle prime giornate di allarme. Un vento che sembra soffiare anche dalle parti di Palazzo Chigi che già ha chiesto di abbassare i toni.
Lombardia e Veneto, le due regioni protagoniste del focolaio e della maggior diffusione del Coronavirus in Italia, sono le due locomotive dell’economia italia. E forse anche per questo, per la loro vocazione commerciale, sono quelle dove il temuto virus è arrivato. Tenerle ferme però costa. Nel primo lunedì post-contagio la Borsa di Milano ha perso quasi il 5%. Nei giorni successivi c’è stato un fisiologico rimbalzo ma ferme, immobili, sono rimaste le imprese di quelle zone e di tutte quelle coinvolte nell’emergenza. Anzi di più, anche quelle fuori e lontanissime dalla zona rossa si preparano o già pagano il prezzo della malattia. Una malattia che si scopre ora far più danni nel portafoglio che nella salute.
Il virus, anche se lo si dice per ora solo timidamente, in fondo è pericoloso per pochi: anziani e soggetti deboli in genere. Anche se una sua ampia diffusione renderebbe la vita difficile al nostro sistema sanitario pur senza diventare una spagnola del XXI secolo. Ma seppur pericoloso per pochi è costoso per tutti. Le grandi aziende, che ci sono in Lombardia come in Veneto e Piemonte, sono costrette a tenere alcuni stabilimenti chiusi. Le piccole e medie devono fare i conti con disdette e officine bloccate come racconta Vincenzo Marinese, presidente di Confindustria Venezia e Rovigo.
Un fornitore croato che doveva consegnare un carico di calce viva a Marghera, sede dell’azienda di Marinese, ha rifiutato la commessa poiché poi al rientro non sarebbe più stato riammesso in Croazia. Per non parlare dei piccoli commercianti che devono tenere le serrande abbassate. E le cose non vanno meglio lontano dalla zona rossa. A Milano, che si potrebbe definire zona gialla, è in crisi la moda, lo sono i tassisti e i ristoranti, non più solo quelli cinesi. Tutti o quasi vedono crollare il loro volume d’affari. Ma anche nelle zone bianche, dove cioè di Coronavirus non se n’è vista traccia, fioccano le disdette negli alberghi e le sale cinematografiche sono vuote.
Un peso insostenibile, verso questo vira e anzi ha virato l’umore delle categorie produttive. Un umore che il governo sembra aver ‘annusato’ e tradotto nella scelta di fare tamponi solo a chi mostra sintomi. D’altra parte, se è vero come hanno sostenuto in molti, a partire da Ilaria Capua, che il virus lo si trova perché lo si cerca, perché complicare una situazione già complessa andando ad alzare i numeri? Anche in considerazione del fatto che nel resto d’Europa lo si cerca molto meno e quindi lo si trova e lo si paga molto meno.
Il nuovo mood, dopo le prime ore e i primi giorni in cui era una corsa a chi metteva in campo la misura più restrittiva per primo, con scuole chiuse anche lontano dai contagi, è il caso delle Marche la cui ordinanza è stata impugnata dal governo, e con amministrazioni pronte a vietare l’ingresso ai lombardo-veneti (ricorderete Ischia), è quindi ora quello di abbassare i toni. ‘Normalizzare’ direbbero alcuni. Prima di ritrovarci sani ma senza un euro.