Dolce&Gabbana, ricorso dopo la condanna per evasione: “Ci occupiamo di stile”

Dolce e Gabbana dopo una sfilata
Dolce e Gabbana dopo una sfilata

MILANO – Gli stilisti Dolce e Gabbana si occupano solo della parte artistica, dei disegni e delle sfilate. Non sono responsabili per la parte commerciale e, quindi, nemmeno per le accuse di evasione fiscale. E’ la linea difensiva scelta dai due stilisti nell’appello alla recente condanna per evasione.

“Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana si occupano, come dice la parola stessa, di stile, cioè delle sole questioni concernenti l’immagine della casa di moda e la creazione dei prodotti industriali, mentre tutto ciò che riguarda la fase commerciale, così come l’organizzazione e l’amministrazione delle strutture societarie è di competenza di altri uffici e di altri soggetti”. Lo si legge nel ricorso depositato a Milano nei giorni scorsi dalla difesa dei due stilisti condannati lo scorso giugno dal Tribunale a un anno e 8 mesi di carcere (pena sospesa) per omessa dichiarazione dei redditi su un imponibile di 200 milioni di euro.

L’avvocato Massimo Dinoia nel chiedere l’assoluzione dei suoi assistiti, ha sottolineato che “i due stilisti non hanno mai amministrato, né di fatto né di diritto, la società lussemburghese Gado” e quindi non si sono nemmeno “minimamente” occupati della tutela dei marchi. In sostanza “tra loro e la gestione di quella società – continua il ricorso – vi è sempre stata una distanza siderale” e per tanto non hanno potuto concorrere nel reato di omessa dichiarazione. Quanto a Gado, come sostiene in sintesi il ricorso in appello dell’avv. Amedeo Simbari, legale di Alfonso Dolce, fratello dello stilista condannato invece a un anno e 4 mesi, si tratta di una società effettivamente operativa in Lussemburgo e non un caso di esterovestizione, come invece ha ritenuto l’accusa.

Nel ricorso in appello l’avvocato Dinoia ha più volte precisato che “i due stilisti erano lontani anni luce dall’attività di commercializzazione dei prodotti e da tutto ciò che riguardava la gestione amministrativa e l’organizzazione delle società del gruppo, che competevano ad altri manager. (…) Erano ancora più lontani – prosegue l’atto – dagli aspetti tecnico-giuridici concernenti l’attività di tutela dei marchi (…). E questo, si badi, non solo da quando esiste Gado, ma dal giorno in cui la casa di moda è stata fondata”. Dunque, ha ribadito la difesa, “Domenico Dolce e Stefano Gabbana dovevano occuparsi di tutt’altro, essendo, per l’appunto, stilisti ed occupandosi, quindi, all’interno della casa di moda, del vero core business, cioè dello stile, inteso come attività di creazione dei prodotti, di promozione della loro immagine, di pubblicizzazione dei loro capi e degli accessori anche attraverso le sfilate”.

Per il legale, dunque, i due stilisti non solo non hanno concorso nella presunta omessa dichiarazione ma non hanno nemmeno tratto alcun “vantaggio fiscale” dal reato di cui è stata sottolineata la “conclamata assenza”. Invece, nel ricorso presentato per la posizione di Alfonso Dolce si legge, tra l’altro, che “la contestazione di esterovestizione, al pari di quella di dichiarazione infedele degli stilisti, va considerata infondata sia in fatto che in diritto, con la conseguente piena assoluzione di tutti anche da questa accusa”. Lo scorso giugno il Tribunale, oltre ai due stilisti e Alfonso Dolce, ha condannato a 1 anno e 4 mesi anche Cristiana Ruella, amministratrice pro tempore della società e membro del cda di Dolce & Gabbana, e Giuseppe Minoni, direttore amministrativo e finanziario di Dolce & Gabbana mentre un anno e otto mesi sono stati inflitti al commercialista del gruppo della moda Luciano Patelli. E’ stata invece assolta, come richiesto dalla Procura, Antoine Noella. Secondo le imputazioni i due creatori della moda avrebbero costituito la Gado, proprietaria dei marchi del gruppo e di fatto gestita in Italia, al fine di ottenere risparmi fiscali ed evadere le tasse. Ipotesi che ora la difesa punta a ribaltare.

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