Nuovo intervento di Antonio Goglia, ex maresciallo dei carabinieri di San Giorgio a Cremano (Napoli) e da anni appassionato al caso di Emanuela Orlandi.
Goglia ha inviato un nuovo articolo a Blitzquotidiano tramite Pino Nicotri.
L’articolo elabora sulla tesi del rapimento, escludendo però ogni responsabilità dell’attentatore di Giovanni Paolo III Ali Agca.
La rilettura dei messaggi dei sequestratori della giovane Orlandi effettuata utilizzando una chiave interpretativa scevra dai condizionamenti imposti dagli stessi responsabili del rapimento e da quelli derivanti dalla guerra fredda che faceva da sfondo agli eventi della vicenda ha condotto, per la prima volta in quasi trent’anni, ad una ricostruzione critica degli eventi fondata sulla rivendicazione formulata dall’”amerikano” con riferimento al contatto stabilito per il 20 luglio 1983, giorno in cui scadeva l’ultimatum imposto al Vaticano per adempiere alle richieste formulate e per procedere alla liberazione della “cittadina vaticana”.
Un mercoledì, il 20 luglio 1983, lo ricordiamo, in cui il Papa tenne un’udienza generale durante la quale pronunciò un’ orazione basata su due lettere dell’Apostolo Paolo, una ai Romani, l’altra agli Efesini, sulle opere buone create dal Signore affinché ciascuno le pratichi osservando la giustizia e dando testimonianza della cristianità e della redenzione.
Non è difficile ritenere che i “marrani” che avevano rivendicato l’azione terroristica che implicava la detenzione della giovane Emanuela dovettero restare molto delusi da questa allocuzione “tipica” del Pontefice. E’ semplice immaginare che i sequestratori si aspettassero tutt’altre dichiarazioni da parte del Papa e prese di posizione corrispondenti alle loro richieste.
Tra queste anche l’esplicita domanda di “consegna” di Agca. Proprio con riferimento a questa condizione imposta dai sequestratori sottolineo quello che a mio parere è uno degli equivoci più grossolani che si sono perpetuati nel trentennio scorso a proposito della vicenda: come chiarito nel comunicato di cui i rapitori richiesero con forza la pubblicazione sui giornali per il giorno 19 luglio, antecedente la data dell’ultimatum, un comunicato da molti ritenuto incomprensibile, si chiedeva la consegna di Agca per il valore che potevano avere i segreti di cui quest’ultimo era a conoscenza. Segreti tali da poter mettere in grave difficoltà politica tanto il Vaticano che la C.I.A., alleati nel contrastare, a diverso titolo, le ideologie e le teologie rivoluzionarie sudamericane.
Dal canto suo Agca dichiarava di trovarsi benissimo nelle carceri italiane esplicitando il suo desiderio di non essere consegnato e continuava la farsa che gli era stata commissionata, come la continua tutt’oggi.
Agca non sapeva e non sa nulla del rapimento Orlandi.
Piuttosto nuove conferme e connessioni vengono alla luce circa i nomi dei protagonisti storici della vicenda Orlandi e l’ambito “brasiliano missionario a vocazione politica con corrispondenti contatti in Italia”.
In particolare, un’importante indizio a conferma della pista missionaria deriva dall’assunto che il cardinale Ugo Poletti da Omegna, reale elemento di collegamento con l’indagato da parte della Procura, monsignore Piero Vergari nonché tra quest’ultimo e lo scomodo gangster Ernesto de Pedis, fu voluto a Roma nel 1963 da Paolo VI proprio affinché si occupasse della direzione delle Pontificie Opere Missionarie (Opera della Propagazione della Fede, Opera di San Pietro Apostolo, Opera della Santa Infanzia e Unione Missionaria). E’ questo il periodo in cui strinse la forte amicizia con monsignor Liberio Andreatta.
Pochi anni dopo, nel 1966, il Cardinale Poletti darà alle stampe, segnatamente quelle della Pontificia Unione Missionaria del Clero, un testo poco noto dal titolo “ Missioni e Cooperazione Missionaria”, il Papa e le missioni, la cooperazione missionaria nell’insegnamento dei Pontefici.
La grande famiglia missionaria trova in Ugo Poletti un importante protagonista della sua storia. Infatti, circa quarant’anni or sono egli scrisse una lettera a tutti i Vescovi italiani ricordando la necessità di creare una struttura diocesana che seguisse il lavoro missionario, sia quello ormai consolidato nel tempo, come le nuove forme di impegno Ad Gentes che stavano nascendo in quegli anni, coinvolgendo sacerdoti diocesani, istituti religiosi non specificatamente missionari e volontari laici che via via cresceva in tutte le diocesi italiane, in modo particolare nelle regioni del Nord.
Con la Fidei Donum era stato introdotto il concetto della corresponsabilità episcopale in campo missionario, ovvero, il dovere di portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra. Nella nota il Prelato affermava che un così grande compito non era prerogativa della sola Sede Apostolica, ma impegno primario di ogni singola Chiesa locale, la quale avrebbe dovuto mettere a disposizione delle necessità della Chiesa Universale le forze disponibili a tale servizio.
La risposta all’esortazione del Cardinale fu immediata e e consistette nella nascita dei Centri Missionari Diocesani e nell’attitudine di un numero sempre crescente di sacerdoti diocesani che, proprio grazie all’Enciclica si cominciò a definire Fidei Donum e prese la strada prevalentemente verso i paesi africani che stavano affrancandosi dal colonialismo, o verso l’America Latina, campo di lavoro propizio per un’esperienza di tal genere.
Tanto detto, considerando anche la direzione del Don Orione, che come già detto in passato contava importanti esponenti sudamericani presso l’arcidiocesi di Boston, e la vicinanza al movimento a forte vocazione missionaria di “Comunione e Liberazione” inserisce perfettamente il prelato nel quadro indiziario supposto.
D’altro canto , l’amicizia ed il rispetto, il legame tra il Vicario del Papa e monsignor Piero Vergari è ben noto, tuttavia un aspetto in particolare di questo connubio è sempre rimasto oscuro: quale era, o è, la connessione di monsignor Vergari con i novizi del terzo mondo?
La risposta ci riconduce ancora una volta nell’ambito missionario ed in particolare alle Pontificie Opere Missionarie. Una di queste in particolare, l’Opera di San Pietro Apostolo, annovera tra i suoi storici programmi quello definito: “Adotta un seminarista di una giovane chiesa” che prevede la contribuzione dei fedeli finalizzata al sostegno materiale alle vocazioni sacerdotali in tutto il mondo e alla formazione del personale apostolico locale. Ed è proprio in quest’ultima attività che deve essere consistita l’opera di Vergari, opera che lo legava ancora di più al suo superiore gerarchico nella diocesi di Roma.
Se fin qui sono stati esposti dei fatti documentati e documentabili anche mediante il sito internet dello stesso monsignore Vergari che, peraltro, intervistato ha più volte ribadito che (in merito al rapimento Orlandi)….”è tutto sul sito”…, anche L’Accademia Cultorum Martirum, concludiamo con una congettura che contiene, tuttavia, ragioni fondate sul movente missionario brasiliano e su quanto riferito dal giornalista Pino Nicotri nel suo libro “Emanuela Orlandi. La Verità”.
Nicotri racconta che un noto studioso di cose vaticane che era quasi sempre al seguito dei viaggi all’estero di Wojtyla gli spiegò che Emanuela sarebbe morta la sera stessa della scomparsa in un appartamento di Salita Monte del Gallo nelle cui vicinanze c’è la stazione ferroviaria di S. Pietro della linea Livorno-Roma. Quest’ultima notazione sarebbe riferibile ai fischi di treno che si possono ascoltare nella telefonata effettuata dall’americano il 5 luglio 1983.
Ebbene, mettendo da parte i depistaggi posti in essere successivamente alla scadenza dell’ultimatum da soggetti inseritisi nella vicenda, non può trascurarsi il fatto che in Salita del Monte del Gallo, al civico 68, si apre la Casa Generalizia della Congregazione delle Suore Missionarie Scalabriniane. Si tratta di una Congregazione di suore missionarie brasiliane…se non morta…Emanuela potrebbe esservi stata quantomeno trattenuta.
Antonio Goglia
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