Un morso. Il segno dei denti sul corpo di quel bambino di otto mesi, portato a sirene spiegate al pronto soccorso del grande ospedale del Gaslini, come se fosse una bambola rotta. Inanimato il piccolo Alessandro, avvolto in una coperta, morto da almeno otto ore, in quell’alba di pioggia di dieci giorni fa, quando il giallo di Nervi è incominciato a sirene spiegate. Oggi il cerchio si chiude con quel morso, l’esame del Dna che riconosce i segni dell’amante della madre, Gian Antonio Rasero, 40 anni, sedicente broker, faccia da duro di bar e night, faccia da coca, giubbotto stretto, un filo di barba, perfino violento nel negare di essere stato lui “il mostro” che ha ucciso Alessandro dopo le sevizie.
Un morso sul piedino del piccolo, la vittima di questa storia di fronte alla quale la gente di Nervi, ma anche tutta la città si gira dall’altra parte da quando il delitto è scoperto: troppo dura, troppo violenta, troppo disumana, troppo pestifera anche per i tempi grami che viviamo.
Una madre e il suo amante in un residence di lusso di Nervi, viale delle Palme e quel corpicino di Ale in mezzo, seviziato poi ucciso, da chi? Da lei che l’aveva lasciato nella notte della tragedia per correre come una pazza a cercare coca da sniffare, lei Katerina Mathas, ventisette anni, italo greca, bella e maledetta, persa per la droga. O lui, l’ultimo amante, uomo equivoco, due figli da una precedente donna, una relazione turbolenta con Katerina, una vita in comune sempre a caccia di droga, fino a quella notte folle nel residence di Nervi, tra le Palme del quartiere più elegante e riservato della città. Il capolinea di una storia che ne richiama altre uguali, segnate dalla coca, la “neve” che cade sempre più fitta sul mercato dei consumatori di stupefacenti e ora non ha più confini di tasca, di ceto sociale, di quartieri , di geografia cittadina. La coca per tutti, cento euro a bustina basta che la trovi e sai dove trovarla.
Katerina quella notte sa dove trovarla ma gira, gira per i bar di Nervi, per i locali notturni dove i “fornitori” circolano con in mano la mappa dei disperati che incontreranno. Ci andava anche la contessa Francesca Agusta, la vittima del giallo di Portofino, a cercare la coca in quei bar e i suoi amici di villa Altachiara, il teatro dell’altro grande giallo nell’inverno del 2001. Oppure ci spediva i suoi amanti-assistenti-guardie del corpo in altre notti uguali a quelle delle follia di Katerina.
Ci andava anche la superstar genovese Tv, il volto accattivante delle fiction di moda, Paolo Calissano, di altolocata famiglia genovese, nella cui casa a tre passi da Nervi, in una mattina livida come quella del povero Ale, fu trovata una ragazza brasiliana “bruciata” dalla coca, una bambola rotta più grande del piccolo Ale, vittima dello stesso meccanismo perverso: la droga, lo sballo totale, l’eccesso: lei uccisa da una dose tagliata male, il piccolo ucciso dalle botte prese perchè disturbava con il suo pianto un party alla coca, un “viaggio”di sua madre o dell’amante.
Il Dna inchioda il Rasero, la sua saliva estratta da quel corpicino che – ultima ignominia, senza funerali, senza fiori, senza nulla che lo scaldi – giace nel frigorifero dell’Ospedale dei bambini di Genova, celle mortuarie, nell’istituto di Medicina Legale del Gaslini sulla collina di Quarto a due passi dal mare, dove i bambini cercano di curarli da malattie terribili e lui è arrivato già morto, in quella coperta che nascondeva i morsi, le sevizie di una notte che non si riesce neppure a immaginare.
Dieci giorni di orrore prima che l’esame del Dna svelasse quella che oggi appare una verità tanto chiara da far immaginare l’immediata scarcerazione di Katerina e una pietra tombale sulla difesa del broker. Ma può il test del Dna spazzare da solo i dubbi, le accuse, le controaccuse che i due amanti si sono scambiati dalla mattina del 16 marzo, quando l’ambulanza si è fermata al Gaslini? La sentenza della saliva può bastare a ricostruire quella notte nel residence?
Katerina non c’era quando Ale è morto, come la ragazza sostiene e come ha urlato in faccia al suo compagno in un drammatico confronto: “ Maledetto, ti farò condannare a trent’anni! L’hai ucciso tu!” Lei era in giro per la città, fino alle tre di notte, a cercare la coca, divorata da una crisi di astinenza. Le capitava spesso – hanno raccontato molti testimoni – Lasciava Ale dove capitava, una volta in una latteria per due ore: “ Me lo tiene per favore”_ chiedeva con gli occhi fuori dalla testa.
Quella notte lo aveva lasciato a lui, l’uomo con cui conviveva. E il bimbo piangeva per fame, per dolore, per mancanza di calore umano, perchè non c’è la mamma, perchè non si può stare a otto mesi dentro a una coperta su un letto, soli disperati in balia di chi ti maltratta e basta. “ Lo ha percosso, lo ha morso, è stato lui!” – urla la ragazza nel confronto in carcere davanti al Pm, Paolo Ayroldi della Procura di Genova.
E lui con il giubbotto grigio tirato su fino al mento ( “Perchè così si nasconde il collo e non si fa vedere che si deglutisce, tipico segnale che si mente “ – spiega un inquirente che ha assistito al drammatico confronto in carcere, tre giorni prima del verdetto del Dna).
Rasero ridacchia perfino, alza le spalle e contrappone la sua verità. Lei è tornata sfatta dal suo giro a caccia di coca e non sopportava il pianto di Alessandro, nella stanza del residence. “L’ho vista sollevarlo più volte, agitarlo, buttarlo giù, è stata lei a fargli male” – sibila il Rasero agli inquirenti con quella faccia da duro, senza cedere di un millimetro. Solo alla fine del confronto lui crollerà, chiameranno un psichiatra per somministrargli farmaci e ancora non sapeva dell’esito del Dna.
Si urlano di tutto nel confronto, forniscono un’immagine terrificante di quella notte da incubo. Loro sfatti dalla coca nella penombra della stanza, nel silenzio del residence tra le palme. Nessuno intorno sente nulla. Le testimonianze sono rarefatte, parlano di una mamma premurosa, di un’ombra accanto a lei, nelle fugaci apparizioni a Nervi, il Rasero. Ma quanto valgono le testimonianze in questa storia, quanto riescono a ricostruire della personalità dei due sciagurati?
Spunta un amico di lei, Bruno I. che racconta di avere tenuto il povero Ale fino a poche ore prima che incominciasse la notte della tragedia. Katerina e Antonio erano a Portofino, a cena, chissà a dirsi cosa. “ Lei lo voleva lasciare, voleva smettere con la coca, voleva stare con me” _ racconta questo supertestimone che spiega di avere addirittura dato il biberon a Ale e poi di averlo consegnato nelle braccia della madre. “ Mi chiamava già papà” – spiega raccontando che lui Katarina se la voleva sposare, che lei era d’accordo, che stavano preparando le carte, che l’avrebbe strappata alla coca e a Rasero e a quel giro maledetto.
Troppo tardi. Era la notte tra il 15 e il 16 marzo. Una delle ultime notti gelide dell’inverno anche a Nervi in quel residence di lusso. Lei e lui e in mezzo quel bambino, come una bambola già rotta. Lo sollevavano, lo spostavano, lo gettavano a terra, lo picchiavano, lo mordevano, lo mettevano nel lettone, non si accorgevano neppure che era già morto. Hanno aspettato l’alba per correre all’Ospedale dei bambini e poi hanno incominciato a accusarsi, come nel copione di un film. Ma questa volta il film è troppo violento, troppo duro, troppo incomprensibile. La gente continua a girarsi di lato, non vuol vedere, non vuol sapere come è andata. Su un giornale della città compare un corsivo:” Puniteli fino in fondo e questa volta nessun beneficio, scontino fino in fondo.”
Li condannano tutti e due, anche se il Dna forse incastrerà lui, il broker con faccia da duro e zip del giubbotto fino al mento. La droga, la coca, la polvere bianca ha bruciato anche l’amore di una madre, comunque lei correva a cercare la “roba” e il suo piccolo, il suo “cucciolo” come lo chiamava urlando e piangendo dalla cella del carcere femminile di Pontedecimo, una volta capita la immensità della tragedia, e lasciava lui, Ale, in quella stanza, da solo o con un orco, come in un incubo tanto spaventoso che nessuno potrebbe raccontarlo.
Non ci sono favole per bambini, storie tanto cattive che abbiamo mai immaginato un finale così. L’orco cattivo mangia i bambini, ma la mamma li ha sempre difesi, protetti, salvati.