Genova: il terzo Capodanno maledetto del porto ex leader del Mediterraneo

Gli scioperi riprenderanno, innescati dalla tragedia della sicurezza che manca, ma soprattutto dalla asfissia che sta facendo mancare l’aria ai traffici – Meno 20 % nel traffico dei container, prezzo della crisi, ma anche di una stasi decisionale provocata da quella cautela per le inchieste giudiziarie, dalle indecisioni sugli spazi dei terminal da dividere tra privati perennemente in lite e sempre avversi agli arrivi dall’esterno e dai ritardi paurosi nel via alle infrastrutture.
Un' immagine del porto di Genova

Diciotto anni dopo la maledizione del 31 dicembre 1982, qualche sirena suonerà nella notte di Capodanno nel porto di Genova, ex leader del Mediterraneo, ex leader tra gli scali italiani per traffico di container, ex capitale dello shipping europeo e, qualche decennio fa, anche mondiale. Suoneranno le sirene dal sibilo acuto o dal tono basso per salutare l’anno nuovo che arriva dalle banchine storiche della vecchia Repubblica di Genova, malgrado tutto e, soprattutto, malgrado il lutto e i blocchi e gli scioperi che hanno incendiato i moli alla vigilia di Natale, dopo la morte di Gianmarco Besana, camallo di 37 anni, schiacciato tra due rimorchi sul traghetto in partenza per Palermo.

Nella notte gelida del 31 dicembre 1982, appunto diciotto anni fa, nessuno sirena aveva suonato, perchè nel vecchio scalo genovese erano attraccate solo due navi, il record minimo nella storia , una vergogna tale da azzittire anche i due “barchi” desolatamente presenti sui moli dove stava picchiando la più grande crisi marittima della plurisecolare storia marittima portuale per la città di Cristoforo Colombo.

Eppure la crisi di oggi, diciotto anni dopo, sembra peggiore di quella di allora anche se le sirene suoneranno e le navi attraccate sono più di venti, contati i traghetti e le navi da crociera, i nuovi giganti del mare che fanno sembrare il porto vivo e pimpante.

Allora le banchine sembravano paralizzate da conflitti insanabili tra il Consorzio del Porto, che goverava la maggior parte delle banchine di un porto pubblico, dove i camalli della Culmv (Compagnia Unica Merci Varie) comandati dal console Paride Batini, il vero Doge di Genova di allora, avevano in mano e nei muscoli delle loro braccia il potere-chiave dell’esclusiva di caricare e scaricare i bastimenti, dove gli utenti privati si sentivano strangolati da quel potere che dettava leggi e regole, dove la politica dei partiti tradizionali, Pci e Psi compresi, era incapace di mediare uno scontro estenuante.

Oggi quel mondo è cambiato e la crisi attuale, che marchia quasi simbolicamente un altro Capodanno di ferro e fuoco in banchina, ha alle spalle tutta un’altra storia.

Paride Batini, console leggendario per ventisette anni, è morto nell’aprile scorso, combattendo non solo una terribile malattia, ma anche un’inchiesta giudiziaria, che lo aveva inchiodato negli ultimi anni di vita all’accusa più infamante che un pezzo d’uomo di quella forza e di quel carisma, un capo duro e puro, un leader indiscusso dalla faccia da attore e dalle strategie da fine tattico, avesse mai potuto sopportare: truffa per avere incassato dalla Autorità Portuale ( l’Ente che ha sostituito negli anni Novanta con legge dello Stato il Consorzio Autonomo del Porto) più di un milione di euro per prestazioni dei camalli, che i giudici della Procura genovese avevano giudicato in parte fasulle.

I camalli, che negli anni Ottanta erano un esercito compatto di quasi settemila uomini, oggi sono poco meno di duemila e nella tragica vigilia di Natale dell’ultimo lutto che li ha colpiti, gli avviati al lavoro erano solo ottocento. La banchine di Genova non sono più un porto pubblico, ma un duro processo di trasformazione le ha totalmente privatizzate, affidando i nuovi terminal a società private, in mano a armatori, imprenditori marittimi, liners grandi e piccoli, multinazionali del trasporto via mare.

I privati hanno conquistato quei moli storici attraverso una battaglia durata quindici anni, dopo che l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, aveva spedito nel ruolo di presidente del Cap, Roberto D’Alessandro, tipico manager rampante dell’era socialista trionfante, ribattezzato “Mutanda celeste” dalla penna corrosiva di un giornalista come Giampaolo Pansa, che in una famosa intervista aveva definito così quel superdirigente, genovese, con carriera milanese ( da Pirelli a Fabbri, a Publikompass e dopo all’Agusta), capace, malgrado il vezzo del boxer colorato così esibito pubblicamente, di introdurre nel porto un nuovo sistema di governo e uno scontro frontale con i camalli di Batini.

Era sceso il campo il cardinale-principe di Genova, Giuseppe Siri per sanare quello scontro, dove la politica aveva fallito tra le barricate semoventi fatte di gru e carriponte di Batini e i cortei degli utenti privati, stile marcia dei 40 mila di Arisio a Torino. A D’Alessandro, che aveva commissariato la Culmv, togliendole i poteri, Siri disse in stretto dialetto genovese quella frase che sbloccò lo scontro: “Presidente non esageri, anche loro devono mangiare.”

D’Alessandro usciva di scena, ma la strada per privatizzare si spianava con i decreti del Governo, emessi da un ministro-meteora del tramontante potere democristiano di allora, il bresciano Gianni Prandini, poi travolto da Tangentopoli e in seguito con l’azione ferma di un nuovo presidente del porto il socialista Rinaldo Magnani, vecchia volpe della politica genovese, già portuale e console della Compagnia dei Carenanti ( quei lavoratori che pitturavano le carene delle navi).

I tempi erano maturi, le leggi antimonopolio dell’Europa inauguravano un nuovo regime portuale nel quale perfino i camalli dell’inossidabile Batini trovavano un nuovo ruolo, fino al punto di essere sia forza lavoro, sia manager capaci di gestire, nella posizione di società private, pezzi interi di porto, come gli altri terminalisti.

Si apriva il Rinascimento del porto di Genova a dieci anni dalle sirene mute? Si poteva sfidare di nuovo la concorrenza trionfante di Marsiglia e dei potenti porti del Nord Europa, Amburgo, Rotterdam, Anversa?

In pochi anni Genova aveva più che raddoppiato i suoi traffici, arrivando a superare i due milioni di container, travolgendo perfino il sogno di D’Alessandro che aveva ipotizzato un traffico annuale di un milione di container, facendosi dare del pazzo visionario.

Ma la vita felice del porto privato, che porta ricchezza a tutta la città e inverte i trend negativi dei conflitti, è durata poco. Malgrado la Fiat investisse nel porto satellite di Voltri, con un inedito investimento infrastrutturale, poi rilevato da una delle più grandi compagnie olandesi di trasporto marittimo e malgrado le sfide di alcuni terminalisti italiani sulle banchine storiche di Genova-Sampierdarena, come il gruppo Negri o come la Grendi&Tarros della famiglia Musso o come il grande gruppo rappresentato dalla Compagnia Ignazio Messina, conosciuta in tutto il mondo per le navi portacontainer Jolly.

Lentamente il nuovo porto privato ha incominciato ad asfissiare per mancanza di spazio al suo interno, per l’incapacità di costruire infrastrutture che “sturassero” le vie di comunicazione di una città lunga e stretta con valichi insufficienti per spedire oltre Appennino milioni di container e decine di migliaia di tir carichi di container.

Lentamente l’ex porto leader ha incominciato ad arretrare di nuovo nella superclassifica degli scali europei, anche se il vento dell’Est prometteva un boom di traffici eccezionale, considerata la posizione strategica di Genova, sempre in grado di far risparmiare a chi sbarcava merce sulle sue banchine almeno cinque giorni di viaggio rispetto ai porti del Nord, raggiungibili con troppi giorni di mare, una volta superato Suez e girato verso Nord lo stretto di Gibilterra.

Lentamente nel porto di Genova sono ripresi i conflitti, questa volta tra i privati che si contendevano gli spazi a terra, i retroporti, perfino le colline dove accatastare container. E il ruolo della nuova Autorità, che lo Stato aveva insediato al posto del vecchio Consorzio, era diventato fragile, una carta velina tra i colossi dello shipping, i ganci dei portuali, gli altri poteri territoriali dal Comune alla Regione, governati dal protagonismo di sindaci e presidenti-governatori, rapidamente promossi assipigliatutto in attesa di un federalismo che poteva pompare miliardi e miliardi sulle banchine. Tutte le tasse di ritorno da Roma a Genova, una manna invano attesa fin’ora.

Tutto a Genova è diventato lento e conflittuale, mentre i camalli di Batini diventavano sempre meno numerosi, per reggere sul mercato del lavoro a prezzi competitivi. Perfino Costa Crociere, diventata americana con l’ingresso della Carnival e l’addio della vecchia e storica famiglia armatoriale, ha abbandonato l’approdo nel suo porto-home storico, preferendo farsi la sua base nella vicina e ristretta Savona, che ha costruito un enorme terminal appositamente per gli attracchi dei colossi Costa.

Una beffa per i genovesi che nella storia avevano perfino interrato il porto di Savona per spregio e strapotere marinaro.

Genova faticava a rendere più profondi i suoi fondali mentre i nuovi e rampanti porti spagnoli di Algesiras, Barcellona, Valencia compivano opere faraoniche come deviazioni del corso dei fiumi per dare più spazio alle banchine, ai container, agganciati dalle navi transhipment, quelle che solcano gli Oceani, in un andirivieni Est-Ovest, infittito a dismisura dai vari boom dei paesi asiatici.

Poi è arrivata la grande crisi mondiale, che, se fa marcire cinquecento navi nella baia di Singapore, mette a nudo i ritardi paurosi di Genova, dove perfino la ferrovia interna al porto diventa un insuperabile casus belli, arruginita e quasi inservibile, quando dovrebbe sfornare decine di treni al giorno, pronti a portare la merce verso Nord, verso la Svizzera e il cuore europeo.

La crisi ha messo le ali agli altri paesi europei, Spagna e Francia in testa, che sfruttano i corridoi disegnati dalla UE per far correre merci e passeggeri.

A Genova non riescono neppure a inaugurare i cantieri che dovrebbero incominciare a costruire il famoso Terzo Valico, una galleria di 32 chilometri nell’Appennino, sulla linea Genova-Milano, che dovrebbe aprire la strada al Corridoio 5, Marsiglia-Rotterdam.

Nel vecchio scalo di Batini impiegano lustri per allargare le calate, perchè i concessionari e le ditte incaricate dei “riempimenti” si scannano in conflitti che diventano eterne battaglie giudiziarie, dal Tar al Consiglio di Stato, dal Tribunale alla Cassazione. C’è anche chi va in galera, magari quella virtuale degli arresti domiciliari, come è accaduto al presidente del porto Giovanni Novi. Novi è stato arrestato nel penultimo giorno del suo mandato e accusato di truffa, corruzione, concussione e vari abusi.

L’esplosione dell’inchiesta ha limitato l’attività del porto per mesi e mesi. Due anni esatti dopo il “grande blitz” il processo è fermo, ma il porto è semiaffondato.

Si è arrivati su questa scia al terzo Capodanno maledetto, dopo quello del 1900, quando i lavoratori proclamarono cinque giorni di sciopero contro la decisione del governo Sorracco di sciogliere la Camera del lavoro, per mano del prefetto Camillo Garroni, per dimostrare che in porto comandava l’autorità e non i camalli. Si è arrivati a questo punto fermo dopo il Capodanno del 1982 con le sirene mute.

Il traffico strangolato dal maltempo e un incidente nella sala macchine di un traghetto, hanno provocato l’innesco della tragedia di Natale 2009. Le code, la fretta, i passeggeri lasciati all’adiaccio in banchina avevano spinto ad accelerare l’imbarco di un altro traghetto.

Gianmarco Desana, il camallo di 37 anni che lavorava nella stiva della nave, restava schiacciato tra due rimorchi.

E’ l’ennesima vittima della storia di oggi, di questi giorni, e insanguina un porto asfittico. I camalli bloccano le banchine dove ci sono, in quella notte di festa prenatalizia, 21 navi e incendiano i cassonetti della rumenta e i copertoni, ai confini tra porto e città per bloccare l’ingresso alle banchine.

La coda in autostrada delle auto che scendono al mare per imbarcarsi verso la Sardegna e la Sicilia, arriva Oltre Appennino. Il porto è di nuovo sull’orlo della guerriglia: come nel 1900, come nel 1982. Una mediazione salva il Natale, ma non il porto.

Gli scioperi riprenderanno, innescati dalla tragedia della sicurezza che manca, ma soprattutto dalla asfissia che sta facendo mancare l’aria ai traffici. Meno venti per cento nel traffico dei container, prezzo della crisi, ma anche di una stasi decisionale provocata da quella cautela per le inchieste giudiziarie, dalle indecisioni sugli spazi dei terminal da dividere tra privati perennemente in lite e sempre avversi agli arrivi dall’esterno e dai ritardi paurosi nel via alle infrastrutture. L’inaugurazione del cantiere Terzo Valico, alla vigilia di Natale, è stata annullata perchè nevicava.

Le sirene suoneranno e qualche fuoco artificiale sarà sparato dalle Calate genovesi, ma il 2010 si apre al buio. Più che mai.

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