Giallo di via Poma. Le nuove piste e le telefonate di Pietrino Vanacore

Giallo di via Poma. Le nuove piste e le telefonate di Pietrino Vanacore
Simonetta Cesaroni. La sua morte è un mistero che dura da 24 anni

Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile di via Poma, è il primo sospettato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e già il 10 agosto del 1990 viene sottoposto a fermo giudiziario.

Molto si è discusso di questa “svolta” nelle indagini che segna per sempre gli sviluppi del caso. Pietro Catalani, il primo PM a seguire l’inchiesta, viene criticato da chi lo accusa di essersi innamorato di una pista investigativa sbagliata. La svolta segna anche la vita del portiere che, il 9 marzo del 2010, si uccise con una modalità terribile, ovvero lasciandosi affogare. Due giorni dopo avrebbe dovuto deporre nel processo di primo grado a Raniero Busco.

Il suo ingresso in questa brutta vicenda Pietrino Vanacore lo fa nella notte dell’omicidio, scendendo le scale della palazzina, mentre nell’edificio regna il trambusto per la terribile scoperta. Prima – questo almeno è stato appurato – era nell’appartamento di Cesare Valle, dove si apprestava a trascorrere la notte, perché aveva promesso alla famiglia dell’anziano architetto di non lasciarlo da solo.

Il portiere di via Poma suscita, sin da subito, negli inquirenti, la sensazione di sapere più di quanto racconti. Nelle sue tante deposizioni le contraddizioni destano sospetti, e i tentennamenti vengono interpretati come ritrosia a collaborare.

Nel settembre del 1990, poco dopo la scarcerazione di Vanacore, due giornalisti del settimanale Visto, Luigi Corvi e Mario Pelosi, giungono in via Poma per una intervista concordata. Mentre parlano con il portiere scorgono sul muro della guardiola, dietro una scala poggiata, una scolatura rossa.

Invece di darne tempestiva comunicazione agli inquirenti, informano l’avvocato di Vanacore e solo dopo aver constatato che la scolatura era stata letteralmente grattata dall’intonaco, riferiscono l’episodio al capo della squadra Mobile di Roma, Nicola Cavaliere che a quel punto può solo constatare che nel muro c’è un buco.

Dopo essere stato scagionato dall’accusa di omicidio, il portiere viene coinvolto di nuovo, questa volta con l’accusa di complicità, quando Pietro Catalani tenta, senza riuscirci, di ottenere il rinvio a giudizio di Federico Valle per l’omicidio.

Poi tutto sembra assopirsi e Vanacore torna con la moglie a Monacizzo.

Quando, nel 2004, il PM Roberto Cavallone riapre l’indagine insieme a Ilaria Calò, l’ex portiere riceve un nuovo avviso di garanzia, le sue utenze finiscono sotto controllo e i carabinieri gli perquisiscono l’abitazione. Questa volta i magistrati ipotizzano che Vanacore sia entrato nell’appartamento prima dell’arrivo di Paola Cesaroni, sorella di Simonetta, insomma prima della scoperta “ufficiale” dell’omicidio. Invece di chiamare la polizia, sempre secondo la ricostruzione, avrebbe cercato di contattare l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente dell’Associazione Italiana Ostelli della Gioventù.

Come hanno fatto Roberto Cavallone e Ilaria Calò a ritenere che possa essere stato proprio il portiere ad aver trovato e toccato il cadavere?

Tutto inizia con una agendina. Il 6 settembre 1990 la Procura di Roma restituisce alla famiglia Cesaroni gli effetti personali di Simonetta, ovvero tutti quei reperti che non ritiene più necessari alle indagini. Tra le cose appartenute alla ragazza ce n’è uno che con lei non c’entra nulla: un’agendina rossa con la scritta Lavazza sulla copertina. I familiari se ne rendono conto e, attraverso l’avvocato Lucio Molinaro, lo comunicano al magistrato. Si scoprirà così che l’agendina è del portiere. Si pensa ad un errore e l’equivoco si chiude con tante scuse e qualche commento ironico sulle pagine dei giornali.

Dopo la riapertura delle indagini i due magistrati romani acquisiscono il testo di alcune intercettazioni fatte a carico di Mario Macinati, un collaboratore dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno. Da queste intercettazioni emergerebbe la notizia di due telefonate, effettuate la sera del delitto, forse proprio dall’ufficio AIAG. L’elemento inquietante riguarda l’orario delle due telefonate partite dall’AIAG: le 20.30 e le 23, cioè poco prima della scoperta dell’omicidio, avvenuta alle 23.20. I magistrati collegano l’agendina rossa marcata Lavazza e le telefonate. Probabilmente, ipotizzano, era stata dimenticata accanto al telefono da cui partirono le telefonate, anche se l’agendina non compare in alcuna foto e non ce n’è traccia nel verbale di sopralluogo. A rispondere alle telefonate sarebbe stato proprio Macinati. Il dipendente dell’avvocato presidente dell’AIAG, viene sentito dagli inquirenti.

Prima ammette qualcosa, poi nega di conoscere Pietrino Vanacore e fa mettere a verbale di non averlo mai incontrato, ma i magistrati non gli credono e lo accusano di falsa testimonianza.

Nel frattempo il figlio di Macinati va a trovare l’avvocato Francesco Caracciolo, ma nessuno sa di cosa abbiano parlato. Un mese prima dell’apertura del fascicolo su Pietrino Vanacore, il 19 settembre 2008, un’altra dipendente dell’AIAG era stata messa a confronto proprio con l’avvocato Francesco Caracciolo. Si tratta di Luigina Berrettini. Lei ricorda di aver sentito l’avvocato pronunciare nei giorni immediatamente successivi l’omicidio una frase sibillina: “Questa è una cosa grandissima, quando tutto sarà finito ne riparleremo”.

Il confronto si risolve con un nulla di fatto perché l’avvocato smentisce i ricordi della Berrettini.

Già, ma perché la Berrettini dovrebbe esserseli inventati? Che interesse avrebbe avuto? Tutto resta senza risposta. Anche l’ipotesi che a fare le telefonate possa essere stato l’ex portiere non trova conferma e il fascicolo viene archiviato nel giugno del 2009.

Durante lo svolgimento del processo di primo grado un nuovo inquietante colpo di scena. Ilaria Calò ipotizza che le telefonate fatte da Pietrino Vanacore sarebbero addirittura quattro. Due a Caracciolo di Sarno, una a Corrado Carboni, il capo ufficio dell’AIAG e una a Salvatore Volponi, il datore di lavoro di Simonetta. Perché Pietrino avrebbe fatto quelle telefonate? Perché avrebbe sospettato un coinvolgimento diretto di uno di questi tre personaggi nell’omicidio.

A sostegno di questa ipotesi Ilaria Calò mostra un mazzo di chiavi con un nastrino giallo. Si tratta delle chiavi di riserva dell’AIAG, solitamente appese dietro la porta d’ingresso dell’ufficio. Il pubblico ministero fa però notare che quelle chiavi sono state sequestrate a Giuseppa De Luca, la moglie del portiere, che le teneva strette dietro la schiena, come se volesse nasconderle, quando un funzionario della Mobile di Roma gliele chiese per accedere nell’appartamento di via Poma. Insomma un ulteriore mazzo di chiavi, oltre a quello in uso a Simonetta, mai ritrovato, e a quello che il portiere teneva in guardiola per entrare nell’ufficio qualora vi fosse stata necessità.

Secondo Ilaria Calò, quelle chiavi le avrebbe prese Pietrino Vanacore dentro la sede dell’AIAG, forse perché non si era portato il suo mazzo, o chissà per quale altro motivo. Dopo aver scoperto il corpo, verso le 20, avrebbe telefonato a Caracciolo. Non trovandolo avrebbe cercato gli altri.

E così ai misteri di via Poma si aggiunge anche quello delle telefonate che il portiere potrebbe aver fatto in quella tragica notte, dopo aver forse scoperto il corpo senza vita di Simonetta Cesaroni.

 

 

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