ROMA – Sono davvero tante le stranezze che circondano l’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma nel 1990. A cominciare da quelle accadute nella notte del 7 agosto, durante il sopralluogo degli investigatori.
Alcune testimonianze indicano che tra i primi ad entrare nell’appartamento, dove avevano sede gli Ostelli della Gioventù, sia stato un funzionario di pubblica sicurezza, genero dell’allora capo della Polizia, che aveva lavorato nei servizi segreti e che tornerà a lavorarci qualche mese dopo l’omicidio. Tuttavia, e qui sta la stranezza, il suo nome non compare nei verbali del personale delle volanti di Polizia. Della sua presenza abbiamo però una conferma indiretta. Nel 2008, dopo la riapertura delle indagini da parte di Roberto Cavallone e Ilaria Calò, il suo nome venne inserito nella lista dei 31 individui a cui fu prelevato un campione di DNA per compararlo con le tracce estratte dal reggiseno della vittima.
Andiamo avanti. Durante il sopralluogo, il computer sul quale Simonetta aveva lavorato durante il pomeriggio venne spento per errore. La chiusura accidentale si verificò all’una e 26 e è fu provocata da qualcuno che avrebbe inavvertitamente premuto un pulsante della tastiera. Molto insolito, ma è accaduto.
Anche la segreteria telefonica dell’ufficio sarebbe stata cancellata per errore. Chi l’ascoltò, invece di farla tornare indietro o, comunque, di prelevarne il nastro, schiacciò il tasto di cancellazione. Sembra assurdo, ma sembrerebbe che si andata proprio così.
Siamo arrivati al tagliacarte. Una foto lo mostra in bella vista sulla scrivania di Maria Luisa Sibilia, l’ultima dipendente ad uscire (verso le 15) dagli Ostelli della Gioventù, poco prima dell’arrivo di Simonetta. In un’altra foto, invece, risulta spostato di una ventina di centimetri. L’elemento inquietante è che ad accorgersene non sono stati i magistrati, ma Gabriella Schiavon, la curatrice del blog “Raniero Busco Innocente”. Chi ha seguito in questi 20 anni l’intricata vicenda di via Poma sa bene che il tagliacarte ha subito un susseguirsi di sparizioni e riapparizioni assai misteriose.
Per il patologo Carella Prada, il professore che ha eseguito l’autopsia sul corpo di Simonetta Cesaroni, quell’oggetto potrebbe essere stato utilizzato per ucciderla, mentre le analisi scientifiche hanno escluso la presenza di tracce di sangue. La documentazione fotografica dimostra, senza ombra di dubbio, che è stato spostato durante il sopralluogo. Nella foto scattata per prima è sopra una cartellina bianca, in un’altra è visibile su un blocco con la scritta Mediolanum. Lo spostamento appare assolutamente incomprensibile. Le immagini della scena del crimine realizzate dalla scientifica dovrebbero fornire una visione degli oggetti così come sono stati ritrovati. Perché allora cambiare posto ad un reperto tanto importante? Mistero.
Non è finita. Sempre durante il sopralluogo una agente di Polizia scarabocchiò un disegnino. Poco dopo la scientifica, scorgendolo accanto alla tastiera del computer in uso a Simonetta, lo ritenne significativo e lo repertò. Il disegno rappresenta una margherita con occhi, naso e bocca sorridente. Sotto la corolla dei petali, un paio di cerchi di diversa misura simulano il collo e il corpo, senza braccia. Sul foglio due scritte di color rosso in stampatello: la prima CE, in alto a sinistra, la seconda DEAD OK, in basso a destra. La agente di Polizia confesserà di esserne l’autrice solo nel 2008. Nel frattempo gli investigatori si erano arrovellati per anni nel tentativo di collegare disegno e scritte all’assassino, chiamando in causa psichiatri e periti calligrafici.
Un’ulteriore stranezza è venuta fuori qualche giorno fa, dopo la sentenza definitiva. Il giornalista Emilio Radice (seguì il caso sin dalle primissime battute per la Repubblica) ospite a Rai Uno Mattina per commentare il giudizio della Cassazione, rivela che, giunto alle sette del mattino dell’8 agosto nel comprensorio di via Poma, vide una traccia di sangue su una persona. Immediatamente segnalò la cosa, ma gli investigatori non gli diedero peso. Emilio Radice venne chiamato dal magistrato un anno dopo, nel 1991, ma si rifiutò di verbalizzare la sua testimonianza perché riteneva che, visto il tempo trascorso, fosse inutile.