BOLOGNA – Marco Pantani non è stato ucciso. A 12 anni dalla morte del ciclista, il Giudice per le indagini preliminari di Rimini Vinicio Cantarini ha messo una pietra sopra all’ipotesi dell’omicidio volontario.
La nuova inchiesta, nata dall’esposto presentato a luglio 2014 dalla famiglia del campione di Cesenatico, trovato cadavere il giorno di San Valentino del 2004 nel residence ‘Le Rose’, non ha individuato possibili indizi che di delitto si trattò e tantomeno di possibili assassini, ed è stata archiviata, come aveva chiesto il Procuratore capo Paolo Giovagnoli, lo scorso settembre.
Il Gip si è pronunciato all’esito dell’udienza del 24 febbraio, sciogliendo la riserva dopo oltre quattro mesi. La Procura, dopo aver scandagliato a distanza di anni la scena, dopo aver rivisitato tutti gli atti e dopo aver disposto una nuova consulenza medico-legale, aveva concluso che non c’erano misteri. “Né la notizia di reato né gli esiti delle indagini – aveva scritto Giovagnoli – hanno fatto emergere neppure il nome di un possibile sospettato, diverso dalle persone già processate, o di un ipotetico movente”. Né sono venuti alla luce elementi nuovi, neppure per ipotizzare condotte dolose della polizia giudiziaria per alterare i risultati degli accertamenti investigativi.
La verità giudiziaria dunque dice che Pantani morì da solo in una stanza del residence, chiusa dall’interno. Per un’azione prevalente di psicofarmaci, così da far pensare più a una condotta suicida, che ad un’overdose accidentale. Esclusa, in ogni caso, l’ipotesi di un’assunzione sotto costrizione.
Mamma Tonina, attraverso l’avvocato Antonio De Rensis, aveva sollevato una serie di questioni nell’esposto e non si era arresa di fronte alla richiesta di archiviazione. Nell’opporsi, il legale della famiglia aveva domandato di approfondire la questione dei metaboliti nel sangue di Pantani, ma anche di interrogare alcuni personaggi mai sentiti dagli investigatori. Secondo De Rensis, i rebus da spiegare erano tanti, come il lavandino staccato dalla parete, secondo alcuni testi, ma trovato sistemato, ma anche la collocazione del bolo di pane e cocaina vicino al cadavere.
Dubbi analizzati dalla Procura prima e dal Gip poi, ma ritenuti evidentemente insufficienti per indagare qualcuno. Rimane a questo punto la ricostruzione dei processi fatti. Un patteggiamento a quattro anni e dieci mesi per Fabio Miradosa e a tre anni e dieci mesi per Ciro Veneruso, per spaccio e morte come conseguenza di altro reato. Il primo, secondo la vecchia ipotesi, avrebbe consegnato al Pirata la dose letale, l’altro l’avrebbe procurata. Poi c’era un altro imputato che aveva rifiutato il patteggiamento e che alla fine è stato assolto dalla Cassazione.
Resta poi Forlì, dove è pendente la richiesta di archiviazione per un’altra inchiesta sollecitata ancora una volta dalla famiglia: l’ipotesi è l‘intervento della Camorra sul Giro d’Italia del 1999. Ombra rimasta tale per le indagini, ma se ne discuterà in un’udienza davanti al Gip la prossima settimana.